Milano, 21 giugno 2015, pomeriggio
Dear The-Reader,
oggi è il 21 giugno e incomincia l’estate. Il plumbago del mio balcone è da un po’ già rigoglioso, denso e molto azzurro. Del resto la primavera è stata generosa, e Milano è fiorita prima di pruni e di magnolie, poi di forsizie, di glicini, di gelsomini, di rose – sì, lei non ci crederà ma quest’anno le rose hanno abitato la città, nelle rotonde delle strade, nelle aiuole dei parchi, sui balconi – e tigli, e plumbago, perfino oleandri e qualche bougenvillea. Tutto meravigliosamente in anticipo. All’inizio di giugno i tigli di un viale che percorro ogni mattina presto, in un luogo(?) piatto e squallido dell’hinterland, mi stordivano con il loro profumo. Era molto caldo in quei giorni, e già prima delle otto l’aria era spessa e avvolgente. Nel viale dei tigli, che attraversa una zona industriale, edifici brutti, alcuni senza finestre, altri con improbabili vetrate oblique che mostrano automobili sospese nel nulla, c’è un cubo di grandi piastrelle bianche, quadrate, alto come una casa di tre o quattro piani. Le finestre sono tutte quadrate, a distanza regolare, e al centro della facciata c’è una grande vetrata, quadrata anch’essa, una specie di piano nobile senza balcone. L’entrata deve essere dietro, perché sotto la vetrata centrale ci sono solo finestre, e nessuna porta. Ma da quella vetrata, che non è schermata da nulla, nè tende o persiane, nulla di nulla, si vede una stanza piuttosto grande completamente tappezzata di libri. Su un lato c’è una scrivania, anch’essa ingombra di libri. I libri stanno anche a terra. Credo di aver capito che il cubo e un edificio ad esso contiguo, un prefabbricato industriale, siano sede di un distributore editoriale. Da molto tempo quando arrivo sul viale dei tigli – se c’è luce, se non sono troppo occupata da altri pensieri, se, se, se – rallento e guardo dentro la vetrata, cercando ogni volta di cogliere le variazioni, la scrivania più sgombra, una pila che prima non c’era, un’altra che è stata spostata. Mi chiedo se chi lavora in quella stanza immagini di essere oggetto di pensieri, di storie, di film che nel tempo si sono scritti e cancellati nella testa di qualcuno, per esempio nella mia. Mi chiedo se sappia di essere qualcosa di totalmente inaspettato, che spunta dalla bruttezza dell’intorno come la carrozza nel cortile di Cenerentola. Passo lì davanti molto presto, e al ritorno faccio un’altra strada, perciò non ho quasi mai visto nessuno. Quasi, però. Un giorno, un giorno in cui la metropolitana ha avuto un guasto, e quindi ho dovuto scendere e raggiungere la mia auto parcheggiata da qualche parte con altri mezzi – credo di averle già raccontato che il mio tragitto prevede due metropolitane e poi l’auto in uscita da Milano – quel giorno, appunto, sono passata davanti alla finestra sui libri che erano già le nove passate, ben oltre l’orario consueto, e guardando dentro ho visto un signore seduto alla scrivania. È stato così bello da farmi dimenticare il malessere per il ritardo, che pure era profondo. Da allora i miei film hanno avuto un protagonista, un uomo un po’ grasso con un maglione chiaro, forse giallino. Quando i tigli hanno incominciato ad annunciare l’estate, qualche tempo fa, e il loro profumo mi illanguidiva come una carezza inaspettata, dietro alla vetrata è comparso un alto cesto intrecciato, un tronco di piramide rovesciato di tutti i colori. Probabilmente per raccogliervi dei libri. O della carta da buttare. Però è strano, perché la scrivania è abbastanza lontana. Sembra quasi messo lì “per bellezza”, per dare colore e variare le linee solo ortogonali di quella stanza e di tutto l’edificio. Ho pensato che non fosse una coincidenza. Che le note insistenti dei tigli avessero travalicato l’olfatto e spinto l’uomo a cercare un canestro di colori per custodire qualcosa. Forse a quell’uomo è successo qualcosa. Nei giorni successivi mi sono concentrata per trovare altri indizi, ma non se ne sono mostrati. Poi, pian piano, come il profumo che entra nelle narici e si insinua in tutte le cellule, e alla fine ti sembra di sentirlo con ogni centimetro di pelle, come una musica struggente, pian piano, dicevo, un pensiero si è infilato nei miei pensieri, e me ne è venuta una sorta di malinconia. Ho pensato che forse l’uomo dei miei film non sta più in quell’ufficio, e che il cesto improvvisamente comparso è segno che qualcun altro, più probabilmente qualcun’ altra, siede a quella scrivania e maneggia quei volumi. Quando ci ho pensato, un po’ alla volta, ho avvertito nel profumo dei tigli una nota troppo dolce, quasi di decomposizione. Nei giorni successivi, passando lì davanti il mio sguardo veniva catturato sempre solo da quel cesto, e nel breve tempo che ho a disposizione per guardare dentro la vetrata non sono più riuscita a cogliere i piccoli mutamenti che davano forma e sostanza alle storie che inventavo.
In un libro che ho appena finito, M una metronovela, Stefano Bartezzaghi cita una frase di Italo Calvino: “La fantasia è un posto dove ci piove dentro” e poi la spiega, seguendo Calvino che segue Dante. La spiegazione è complessa, l’immaginazione, i sensi, le trombe terrene e la luce celeste, il dentro e il fuori di sè, la realtà e la verità, e gli errori e i falsi errori. Ma prima di spiegarla Bartezzaghi, che il senso del gioco ce l’ha nel profondo dell’animo, sfida il lettore e dice che senza conoscere le citazioni che poi citerà la frase di Calvino è “totalmente” oscura, e aggiunge “e quando verrà la pioggia dentro alla fantasia, il cadavere squisito berrà vino novello.” Ho chiuso il libro a quel punto, e ho raccolto la sfida di darmi una spiegazione prima di leggere le citazioni e le spiegazioni delle citazioni. All’inizio ho pensato che la fantasia è un buco in qualcosa di solido. Un buco nel tetto, un pozzo, una galleria, un buco nel formaggio. Un buco che può riempirsi poco o tanto, se ci piove dentro, e addirittura debordare se la pioggia è un nubifragio come quelli di questi giorni (non è il buco che deborda, naturalmente, ma l’acqua piovana che lo riempie. O forse no. Forse è proprio il buco a debordare dalla sua bucaggine, perché se si riempie d’acqua o di vino squisito o di cadaveri novelli non è più un vuoto, ma un pieno, posto di bruchi e di bachi che scavano buchi) Oppure, se non piove mai, può rimanere solo un buco sempre uguale a se stesso. A quel punto, con il buco in testa, ho riaperto il libro. Alla fine della sua spiegazione Bartezzaghi conclude dicendo che “la fantasia è una scatola, o un vaso”. Ho spento la luce abbastanza soddisfatta, quella sera, perché in fondo, senza ricordarmi niente di Dante nè aver mai letto le Lezioni Americane
(Cielo!
Che buco!
Il bruco dell’ignoranza mi buca. – O mi baca? –
Berrò una sambuca. Buca buca buca)
in fondo, dicevo, ho trovato il mio vaso. (o vasino, che è pur sempre un vaso)
Qualche giorno dopo, passando nel viale dei tigli, davanti alla vetrata sui libri, ho ripensato a Bartezzaghi (ci penso continuamente, perché il suo libro è una scatola magica, uno di quei libri da riprendere ogni tanto: una fermata oggi, una piazza domani, sopra, sotto, dentro e fuori, la pioggia che piove in un posto e deborda dalle scarpe oltre che dai mezzanini della metro. Un libro che sembra scritto – anche – per Musette, con la sua passione dei treni e delle stazioni. Una storia d’amore, insomma) Ho guardato e ho visto un cubo con un buco (Il vetro c’è ma non si vede. È solo perché lo sappiamo, che lo vediamo) Nel buco ho visto un cesto colorato, di forma geometrica, la base inferiore, quadrata, più piccola di quella superiore, un tronco di piramide come le ho già detto, ma rovesciato, il buco più grande della base che lo sorregge. Il canestro è scoperchiato – lo sapevo già, ma fino a quel momento non mi era sembrato importante. Ne avevo notato la forma, l’ altezza e i colori. Quel giorno, invece, ho visto il buco. Perché non c’è vaso che non abbia un buco. Un buco nel buco del cubo. E libri dappertutto, che offrendosi alla vista fuoriescono dal cubo in cui sarebbero chiusi e piovono nel mio sguardo. Così, Caro The-Reader, ho ringraziato Bartezzaghi e Calvino e l’architetto ossessionato dal quadrato del cubo. La fantasia è un posto dove ci piove dentro, ma è anche un posto dove piove fuori. Il profumo dei tigli era già meno intenso. La fioritura stava sfiorendo e un temporale della sera prima aveva sciacquato il profumo dalla sua punta dolente. Erano le sette e mezza del mattino e tutto era chiaro e brillante. Ho pensato che se il libro di Bartezzaghi l’avessi letto in inverno, quando il mio viaggio si compie tutto al buio, sarei passata lì davanti e non avrei visto proprio niente. Come Lei sa, io amo l’estate, la luce, il caldo. Adesso ne ho un motivo in più. Il buco dei libri, come un ghiro, d’inverno va in letargo. Ora, invece, sta lì, visibile, e piove.
Dell’ultimo viaggio non le racconto nulla, un po’ perché ho già sbrodolato abbastanza, un po’ perché ho letto tutto il tempo, senza mai alzare la testa. Solo una volta mi sono alzata per prendere un golf per far fronte alla temperatura polare del treno. Era un tratto di gallerie. Come essere in metropolitana. O nel libro che stavo leggendo. Next stop Milano Centrale.
Chissà se a Lei piace l’estate. Chissà se Lei viaggia in metropolitana, o in auto, o in una carrozza a cavalli. Chissà se lei si ferma a guardare dentro le finestre altrui, o nei vagoni del treno o nei buchi del formaggio. Lei mi dà molto da pensare. Anche Lei, mi sa, è un posto dove ci piove dentro. Se non altro perché tenacemente continua a passare di qui, nonostante i miei buchi.
Sua
Musette