Di un viale di tigli, di cubi e di buchi. La fantasia è un posto dove ci piove dentro.

Milano, 21 giugno 2015, pomeriggio

Dear The-Reader,

oggi è il 21 giugno e incomincia l’estate. Il plumbago del mio balcone è da un po’ già rigoglioso, denso e molto azzurro. Del resto la primavera è stata generosa, e Milano è fiorita prima di pruni e di magnolie, poi di forsizie, di glicini, di gelsomini, di rose – sì, lei non ci crederà ma quest’anno le rose hanno abitato la città, nelle rotonde delle strade, nelle aiuole dei parchi, sui balconi – e tigli, e plumbago, perfino oleandri e qualche bougenvillea. Tutto meravigliosamente in anticipo. All’inizio di giugno i tigli di un viale che percorro ogni mattina presto, in un luogo(?) piatto e squallido dell’hinterland, mi stordivano con il loro profumo. Era molto caldo in quei giorni, e già prima delle otto l’aria era spessa e avvolgente. Nel viale dei tigli, che attraversa una zona industriale, edifici brutti, alcuni senza finestre, altri con improbabili vetrate oblique che mostrano automobili sospese nel nulla, c’è un cubo di grandi piastrelle bianche, quadrate, alto come una casa di tre o quattro piani. Le finestre sono tutte quadrate, a distanza regolare, e al centro della facciata c’è una grande vetrata, quadrata anch’essa, una specie di piano nobile senza balcone. L’entrata deve essere dietro, perché sotto la vetrata centrale ci sono solo finestre, e nessuna porta. Ma da quella vetrata, che non è schermata da nulla, nè tende o persiane, nulla di nulla, si vede una stanza piuttosto grande completamente tappezzata di libri. Su un lato c’è una scrivania, anch’essa ingombra di libri. I libri stanno anche a terra. Credo di aver capito che il cubo e un edificio ad esso contiguo, un prefabbricato industriale, siano sede di un distributore editoriale. Da molto tempo quando arrivo sul viale dei tigli – se c’è luce, se non sono troppo occupata da altri pensieri, se, se, se – rallento e guardo dentro la vetrata, cercando ogni volta di cogliere le variazioni, la scrivania più sgombra, una pila che prima non c’era, un’altra che è stata spostata. Mi chiedo se chi lavora in quella stanza immagini di essere oggetto di pensieri, di storie, di film che nel tempo si sono scritti e cancellati nella testa di qualcuno, per esempio nella mia. Mi chiedo se sappia di essere qualcosa di totalmente inaspettato, che spunta dalla bruttezza dell’intorno come la carrozza nel cortile di Cenerentola. Passo lì davanti molto presto, e al ritorno faccio un’altra strada, perciò non ho quasi mai visto nessuno. Quasi, però. Un giorno, un giorno in cui la metropolitana ha avuto un guasto, e quindi ho dovuto scendere e raggiungere la mia auto parcheggiata da qualche parte con altri mezzi – credo di averle già raccontato che il mio tragitto prevede due metropolitane e poi l’auto in uscita da Milano – quel giorno, appunto, sono passata davanti alla finestra sui libri che erano già le nove passate, ben oltre l’orario consueto, e guardando dentro ho visto un signore seduto alla scrivania. È stato così bello da farmi dimenticare il malessere per il ritardo, che pure era profondo. Da allora i miei film hanno avuto un protagonista, un uomo un po’ grasso con un maglione chiaro, forse giallino. Quando i tigli hanno incominciato ad annunciare l’estate, qualche tempo fa, e il loro profumo mi illanguidiva come una carezza inaspettata, dietro alla vetrata è comparso un alto cesto intrecciato, un tronco di piramide rovesciato di tutti i colori. Probabilmente per raccogliervi dei libri. O della carta da buttare. Però è strano, perché la scrivania è abbastanza lontana. Sembra quasi messo lì “per bellezza”, per dare colore e variare le linee solo ortogonali di quella stanza e di tutto l’edificio. Ho pensato che non fosse una coincidenza. Che le note insistenti dei tigli avessero travalicato l’olfatto e spinto l’uomo a cercare un canestro di colori per custodire qualcosa. Forse a quell’uomo è successo qualcosa. Nei giorni successivi mi sono concentrata per trovare altri indizi, ma non se ne sono mostrati. Poi, pian piano, come il profumo che entra nelle narici e si insinua in tutte le cellule, e alla fine ti sembra di sentirlo con ogni centimetro di pelle, come una musica struggente, pian piano, dicevo, un pensiero si è infilato nei miei pensieri, e me ne è venuta una sorta di malinconia. Ho pensato che forse l’uomo dei miei film non sta più in quell’ufficio, e che il cesto improvvisamente comparso è segno che qualcun altro, più probabilmente qualcun’ altra, siede a quella scrivania e maneggia quei volumi. Quando ci ho pensato, un po’ alla volta, ho avvertito nel profumo dei tigli una nota troppo dolce, quasi di decomposizione. Nei giorni successivi, passando lì davanti il mio sguardo veniva catturato sempre solo da quel cesto, e nel breve tempo che ho a disposizione per guardare dentro la vetrata non sono più riuscita a cogliere i piccoli mutamenti che davano forma e sostanza alle storie che inventavo.

m-una-metronovela-190x300In un libro che ho appena finito, M una metronovela, Stefano Bartezzaghi cita una frase di Italo Calvino: “La fantasia è un posto dove ci piove dentro” e poi la spiega, seguendo Calvino che segue Dante. La spiegazione è complessa, l’immaginazione, i sensi, le trombe terrene e la luce celeste, il dentro e il fuori di sè, la realtà e la verità, e gli errori e i falsi errori. Ma prima di spiegarla Bartezzaghi, che il senso del gioco ce l’ha nel profondo dell’animo, sfida il lettore e dice che senza conoscere le citazioni che poi citerà la frase di Calvino è “totalmente” oscura, e aggiunge “e quando verrà la pioggia dentro alla fantasia, il cadavere squisito berrà vino novello.” Ho chiuso il libro a quel punto, e ho raccolto la sfida di darmi una spiegazione prima di leggere le citazioni e le spiegazioni delle citazioni. All’inizio ho pensato che la fantasia è un buco in qualcosa di solido. Un buco nel tetto, un pozzo, una galleria, un buco nel formaggio. Un buco che può riempirsi poco o tanto, se ci piove dentro, e addirittura debordare se la pioggia è un nubifragio come quelli di questi giorni (non è il buco che deborda, naturalmente, ma l’acqua piovana che lo riempie. O forse no. Forse è proprio il buco a debordare dalla sua bucaggine, perché se si riempie d’acqua o di vino squisito o di cadaveri novelli non è più un vuoto, ma un pieno, posto di bruchi e di bachi che scavano buchi) Oppure, se non piove mai, può rimanere solo un buco sempre uguale a se stesso. A quel punto, con il buco in testa, ho riaperto il libro. Alla fine della sua spiegazione Bartezzaghi conclude dicendo che “la fantasia è una scatola, o un vaso”. Ho spento la luce abbastanza soddisfatta, quella sera, perché in fondo, senza ricordarmi niente di Dante nè aver mai letto le Lezioni Americane
(Cielo!
Che buco!
Il bruco dell’ignoranza mi buca. – O mi baca? –
Berrò una sambuca. Buca buca buca)
in fondo, dicevo, ho trovato il mio vaso. (o vasino, che è pur sempre un vaso)
Qualche giorno dopo, passando nel viale dei tigli, davanti alla vetrata sui libri, ho ripensato a Bartezzaghi (ci penso continuamente, perché il suo libro è una scatola magica, uno di quei libri da riprendere ogni tanto: una fermata oggi, una piazza domani, sopra, sotto, dentro e fuori, la pioggia che piove in un posto e deborda dalle scarpe oltre che dai mezzanini della metro. Un libro che sembra scritto – anche – per Musette, con la sua passione dei treni e delle stazioni. Una storia d’amore, insomma) Ho guardato e ho visto un cubo con un buco (Il vetro c’è ma non si vede. È solo perché lo sappiamo, che lo vediamo) Nel buco ho visto un cesto colorato, di forma geometrica, la base inferiore, quadrata, più piccola di quella superiore, un tronco di piramide come le ho già detto, ma rovesciato, il buco più grande della base che lo sorregge. Il canestro è scoperchiato – lo sapevo già, ma fino a quel momento non mi era sembrato importante. Ne avevo notato la forma, l’ altezza e i colori. Quel giorno, invece, ho visto il buco. Perché non c’è vaso che non abbia un buco. Un buco nel buco del cubo. E libri dappertutto, che offrendosi alla vista fuoriescono dal cubo in cui sarebbero chiusi e piovono nel mio sguardo. Così, Caro The-Reader, ho ringraziato Bartezzaghi e Calvino e l’architetto ossessionato dal quadrato del cubo. La fantasia è un posto dove ci piove dentro, ma è anche un posto dove piove fuori. Il profumo dei tigli era già meno intenso. La fioritura stava sfiorendo e un temporale della sera prima aveva sciacquato il profumo dalla sua punta dolente. Erano le sette e mezza del mattino e tutto era chiaro e brillante. Ho pensato che se il libro di Bartezzaghi l’avessi letto in inverno, quando il mio viaggio si compie tutto al buio, sarei passata lì davanti e non avrei visto proprio niente. Come Lei sa, io amo l’estate, la luce, il caldo. Adesso ne ho un motivo in più. Il buco dei libri, come un ghiro, d’inverno va in letargo. Ora, invece, sta lì, visibile, e piove.
Dell’ultimo viaggio non le racconto nulla, un po’ perché ho già sbrodolato abbastanza, un po’ perché ho letto tutto il tempo, senza mai alzare la testa. Solo una volta mi sono alzata per prendere un golf per far fronte alla temperatura polare del treno. Era un tratto di gallerie. Come essere in metropolitana. O nel libro che stavo leggendo. Next stop Milano Centrale.

Chissà se a Lei piace l’estate. Chissà se Lei viaggia in metropolitana, o in auto, o in una carrozza a cavalli. Chissà se lei si ferma a guardare dentro le finestre altrui, o nei vagoni del treno o nei buchi del formaggio. Lei mi dà molto da pensare. Anche Lei, mi sa, è un posto dove ci piove dentro. Se non altro perché tenacemente continua a passare di qui, nonostante i miei buchi.

Sua

Musette

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Di qualcosa di nuovo, anzi d’antico. E di una finestra affacciata su un orto. E di scuse tra le righe.

Dear The Reader,
so che Lei è passato di qui molte volte, anche recentemente, e mi vergogno un po’ del silenzio che ha trovato. Sono mesi che voglio scriverle, e sono mesi che rimando. Non mi nasconderò dietro bugie abusate, non ho tempo, ho molto da fare, non ho tempo, cose improvvise e senza scampo, non ho tempo, si è rotto il computer, non ho tempo, il rubinetto le infiltrazioni la lavastoviglie la caldaia, non ho tempo, la tragedia dietro l’angolo, non ho tempo, sono partita sono tornata, non ho tempo, ho scritto in brutta non ho copiato, il lavoro, aiuto il lavoro, la famiglia, la grande famiglia, AIUTO, LA GRANDE FAMIGLIA. No. sarebbero solo bugie. Non petite e per questo ancora più irritanti, perché sbrodolato a proprio uso e consumo. No. Se uno vuole scrivere, scrive, come ci insegnano Dickens, Stevenson, Mark Twain, Simenon e molti altri prolifici scrittori, o musicisti. Sguardo sul foglio, a lume di candela, scrivere intingere scrivere asciugare, ore e ore, senza scuse. Qualsiasi cosa succeda, la vita la morte le tasse Pasqua Ferragosto Natale. La verità è che sono diventata pigra, o meglio più pigra. Penso spessissimo di scriverle, leggo, ascolto, osservo, annuso, tocco, e penso che sarebbe bello raccontarlo a lei. E lo racconto, lì, in quel momento, e le parlo, le leggo o le mostro, ma poi basta, ai pensieri non segue nessuna azione, e più penso che voglio scriverle, più mi risulta difficile prendere una penna in mano. Mi ero quasi rassegnata a decidere di decidere di non scriverle più, di lasciare due righe in modo che lei smettesse di passare, perché la so quella sensazione di delusione del desiderio che sembra un po’ come mangiare qualcosa di appena un po’ guasto, appena un po’, non del tutto, non un boccone che si sputa, ma si mangia lo stesso, anche se non è buono, eppure lo si era comprato conservato cucinato, e si mette in bocca e si aspetta quel sapore, ma c’è un retrogusto, un fondo ineliminabile, e si aggiunge il pane per coprirlo, ma rimane lì, e non se ne va. Lo so com’è, e oggi, oggi che è una giornata di luce inaudita e vento freddo di tramontana, e Roma è due, sporca – sporchissima – a terra di foglie e di carta straccia, ma cristallina e azzurra se si guarda il cielo, lucente e sporca, sporca e lucente, e rumorosa di vento come una città di mare, oggi non so perché – o forse lo so, le antenne ondeggiavano nel cielo, dando alle case l’aspetto di navi in beccheggio, una specie di Fitzcarraldo metropolitano, con sfondo di cielo e rumore di vento – oggi, dicevo, ho pensato che non volevo essere per Lei quel retrogusto. E così eccomi qua, con molti treni in questi mesi, alle spalle una primavera radiosa, un’estate che non c’è stata, nemmeno un cinema all’aperto, settembre e ottobre di caldo tardivo e sandali aperti, e poi pioggia, pioggia, pioggia, le foglie cadute ancora verdi, e i giorni prima di Natale inconsuetamente caldi, come di aprile avanzato, e ora vento di tramontana e gelo vero, e luce di un’altro pianeta.
Il giorno di Natale in treno. A Firenze un cielo spesso e scurissimo di nuvole a strati, e una luce insidiosa da temporale che cercava un passaggio fino ai finestrini del treno, quasi viola, quasi oscena nel modo di tagliare gli oggetti e di denudarli all’improvviso, davanti a tutti. Ho pensato a una foto che ho visto alla mostra di Cartier Bresson, qualche tempo fa. Una foto scattata a Siviglia, nel ’33. Un vicolo, angoli netti e spigoli, ombre come affilate come coltelli. Sulla destra, appena visibile, una figura, forse un ragazzino, completamente in ombra, se non per una macchia di luce sul capo e su una piccola parte della maglietta bianca. Sta appoggiato al muro, una forma scura senza volto, il capo leggermente in avanti. Forse aspetta. Forse osserva. Non c’è nulla da osservare, se non il vicolo vuoto, la luce e le ombre geometriche come quelle che vedo ora dalla mia finestra, ma tutto si riempie del suo sguardo, che non vediamo ma sentiamo, che spinge il nostro di sguardo, e lo fa rimbalzare sulle superfici assolate e, insieme, immergere nelle ombre. Mi sono sentita così, in quel treno semivuoto, un grumo di occhi e di pensieri che guarda fuori, il mondo che si palesa mio malgrado in un raggio saturo che disegna i tetti, le pensiline i marciapiedi, gli orologi, i pali e i binari a sbalzo su un fondo di nuvole stratificate, nere. Ciascun particolare intero, tutti i particolari un intero. Due giorni prima, stesso tragitto in senso inverso, la prima nebbia della stagione, ombre rarefatte, alberi come sirene, nessuna linea precisa, solo curve sfumate e colori vaghi, uniformi. Una confusione dei sensi e dell’anima. E poi, inatteso, un disvelamento. In questi mesi, mio carissimo The Reader, ho fatto molti viaggi. Ma questi ultimi due condensano tutti i movimenti, e raccontano sinteticamente, come la foto di Cartier Bresson, un cambio di sguardo, una luce satura improvvisa, un palesarsi di qualcosa su uno sfondo gonfio e scuro, qualcosa di nitido, cristallino, qualcosa di ineludibile che d’ora innanzi sarà nel mio sguardo. Mesi ci ho messo per arrivarci. Ho aspettato. Aspettato, aspettato. Ma ora è così chiaro. Nel mio sguardo e, sono certa, nello sguardo di chi mi guarda. È qualcosa di nuovo, anzi d’antico. È come un alba e insieme un tramonto. È bello, e stupefacente.
Dear The Reader, è dicembre, l’anno finisce. È tempo di auguri. Davanti alla mia finestra uno dei palazzi che era al sole, è ora in ombra, tranne il cornicione, le antenne sul tetto e l’angolo di sinistra. Guardo l’ombra avanzare sull’ultimo lembo di muro, verso l’ultima finestra assolata, in alto, appena sotto il tetto. Le mando l’immagine di questa finestra. Buon anno. Che ci sia una finestra illuminata, anche se sotto la città è sporca e corrotta. “La” finestra su cui posare lo sguardo, o la mente quando non si possa essere nella posizione per vederla. Una finestra assolata anche in dicembre, nei giorni più corti dell’anno.

Buon anno.

Sua
Musette

ps. davanti al palazzo della finestra, che è posto perpendicolarmente rispetto a dove io mi trovo, al di là di una strada stretta, c’è un giardino, e nella parte terminale di questo giardino, verso la strada davanti alla mia finestra, un orto. Un magnifico, curatissimo orto in città, protetto verso la strada da un muro di mattoni che lo nasconde completamente a chi passa. C’è un uomo che se ne occupa. L’ho visto molte volte. Perfino oggi, che è così inconsuetamente freddo per Roma. Indossa un maglione blu pesante e ha capelli bianchi. Sento le sue cesoie da qui, con la finestra chiusa. Lo vedo piegarsi su un cespuglio e tagliarne un ramo, che forse il vento ha spezzato. Non c’è un pezzo di carta o di plastica in quell’orto. Eppure lì davanti, sulla strada, è tutto sporco, foglie, giornali, sacchetti. Mi piace guardare quell’uomo che cura il suo giardino. Mi piace la sua dedizione, la sua costanza, la sua pazienza, tutti i giorni, anche se fa così freddo. Lo guardo e mi viene un po’ di malinconia. Sì, tutti i giorni, anche se fa così freddo.

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Di un Baco tessitore e di un sarto silenzioso, e del tempo in un filo di seta. E di calore sulla schiena, al sole.

Dear the-Reader,

per molto tempo Lei non è passato su queste mie pagine, e ho pensato che – anche – lei si fosse stancato di questi miei pensieri. Così non le ho scritto, anche se ho preso treni, perché mi intristiva gettare parole nell’etere senza il lettore a cui sono destinate. Poi, un po’ di tempo fa, ho rivisto la cartina degli Stati Uniti arrossire, e sono arrossita a mia volta di piacere e di vergogna per essere stata così sciocca. Io non scrivo mai e lei ha diradato i suoi passaggi, è ovvio, perché non ha senso aspettarsi lettere da buste vuote. Così La ringrazio di essere tornato, di avermi regalato questa gioia e soprattutto di aver fatto in modo che io mi accorgessi di quanto sono avventata, sometimes.
Ieri l’altro ho preso il treno, alberi e arbusti fioriti di bianco dappertutto, qualche chioma rosata, giallo di forsizie e colore secco di mimose già passate. Campi verdi, in alcuni tratti, terrosi in altri, ma di un marrone vigoroso, da terra appena dissodata, pronta ad accogliere la stagione nuova.
L’ultima volta, qualche settimana fa, tutto era fangoso, come nel film Lezioni di piano, gli alberi sull’argine dell’Arno sommersi per una parte del tronco, il fiume scuro sotto un cielo scurissimo, nuvoloni pesanti appena addolciti da un sole obliquo che per un momento colpiva il finestrino del vagone su cui viaggiavo. Che strano inverno, quest’anno, così piovoso, quasi “caldo”, un inverno autunnale, senza neve, grigio e pioggia, cielo uniforme, ogni tanto un sole improvviso e il giorno dopo pioggia, pioggia, pioggia. I campi erano disperatamente allagati, e gli alberi spogli sembravano tronchi di palafitte. Ogni tanto un albero isolato, a volte un cipresso verde, a volte un albero ad ombrello senza foglie che non riconoscevo, spuntavano e si specchiavano nell’acqua come gru o un qualche animale primitivo che sembrava lì ad aspettare qualcosa, o a lasciare che il tempo gli scivolasse addosso come pioggia su un telo di plastica. L’altro giorno, invece, una luce di risveglio un po’ sonnacchiosa, morbida, che perfino riflettendosi su teli di plastica di una qualche coltivazione – forse erano viti, non ho visto bene,il treno andava molto veloce – giocava e rimbalzava come su squame di pesce, in un gioco di specchi e di rimandi che sembrava dire basta, l’inverno è finito, e l’eco rispondeva ito ito ito. Luce che si insinuava, si frammentava e si ricomponeva come la musica di Bach nel flauto del Baco Sebastiano. Lo conosce? È un piccolo baco da seta che mangia musica di Bach – Johan Sebastian – e la tesse e ritesse in un gioco per flauto e chitarra, lieve, che procura un piacere sottile, e come la luce di ieri che mi ha fatto esclamare ecco, è primavera, e l’eco ha risposto vera vera vera. La foglia di gelso divorata che diventa bozzolo, il bozzolo che viene bollito, e lavorato e diventa filo, e il filo ritorto, accoppiato, finalmente tessuto. Un baco gentile, allegro, a tratti anche un po’ malinconico, che visita Bach e ne trae linfa: non baca, no, proprio per niente, visita rivisita e bacheggia, non parcheggia, no, non si ferma, si muove, come il mio treno di ieri, in una luce di primavera che biancheggia di fiori i declivi delle colline o gli alberi da frutto della pianura. Sono allegra, come vede, e mi prendo il lusso di giocare con le parole, a costo di sembrare svitata come una vite da dado e non da frutta. Sì. Sarà che oggi a Roma ho mangiato all’aperto, un solicello che mi scaldava la schiena, un prunus fiorito davanti agli occhi, un vento leggero che faceva ondeggiare lenzuola gialle stese dal balcone di una casa gialla, così che in uno strano effetto ottico sembrava che la casa si muovesse, lievemente, come una vela nel cielo, e un calore che mi è sembrato nuovo, come un vestito di seta che ti avvolge languidamente. Ho letto un libro di Simenon, qualche tempo fa, Tre camere a Manhattan: non mi è piaciuto, e non avevo intenzione di parlarne qui, perché è un libro tetro, pieno di pioggia, di buio e di luci al neon crude e volgari, e i due, un uomo e una donna, mi sembrano ologrammi di esseri umani. Ma c’è una cosa, in quel libro, che mi ha colpito: i protagonisti guardano sempre dalla finestra un vecchio sarto ebreo che, un punto dopo l’altro, ago e filo e pazienza, cuce, scuce, aggiusta, rammenda, un giorno dopo l’altro, la sera fino a tardi e la mattina da molto presto. Ho amato da subito quel sarto, la sua dedizione e la sua pazienza, ma non ho capito subito perché. Oggi, seduta al sole di Roma, mentre guardavo affascinata minuscoli arcobaleni nelle bollicine d’acqua frizzante nel mio bicchiere, ho pensato che un anno fa l’inverno era ancora profondo, la primavera lontanissima, non c’era nessun calore che mi avvolgesse nè luce per vedere alcun arcobaleno. Ho pensato al sarto ebreo di Simenon e al suo lavoro silenzioso, su un tavolo accanto a una finestra per raccogliere ogni filo di luce anche nelle giornate più cupe e trasformarlo in punti di filo come di sutura, ricomporre gli strappi e ricucire, vestiti di seta e tessuti grezzi da lavoro, anime e cuori e pensieri come orli sdruciti che hanno bisogno di qualcuno che dedichi loro tempo e pazienza. Sì, ho amato subito quel sarto, e oggi, mentre me ne stavo a guardare un bicchiere d’acqua che mi sembrava meraviglioso come i cristalli dei lampadari che da bambina mi lasciavano stupefatta, ho sentito nel calore sulla schiena che quel sarto lavora come il tempo, e dà o ridà forma alle cose che forma non hanno o hanno perduto. Una sensazione fisica, chiara, e solo dopo la formulazione di un pensiero.
Sì, sono allegra. La primavera è precoce, ascolto il baco Sebastiano e penso a fili di seta che servono per cucire abiti morbidi come il sole di oggi, ma con calma, a piccoli, piccolissimi punti fatti con cura, a mano, perché la seta è preziosa, e delicata, e le cuciture si aggrovigliano se non sono pazienti.
Caro the-Reader, lei non sa che gioia sia stata, il suo passaggio dopo tanto tempo. Come questa primavera, come il calore sulla schiena, come un vestito di seta cucito a mano.

Mnm

ps. Volevo mettere il link al Baco Sebastiano, ma non sono al mio computer e con questo aggeggio che uso non sono capace, come non riesco a cambiare il carattere e a mettere i corsivi. (solo nella prima riga e nella firma sono riuscita. Mah…) Comunque è facile, si trova facilmente, basta digitarne il nome e subito lui compare in uno zefiro di primavera.

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Di castagne e di sassolini, e di una falce di luna in un cielo di cristallo. Che sciocchi. Che titani.

Dear the-Reader,

nell’ultima settimana giornate molto luminose sugli alberi ancora autunnali, cielo terso e una falce di luna crescente talmente chiara da lasciar intravedere la parte in ombra, un contorno netto che dice che le cose non sono solo quelle che vediamo. Uno spicchio luminoso che ci fa intuire la parte oscura di sè, che sta lì, come uno specchio coperto da drappi scuri, e basta un gesto, un semplice gesto della mano perché torni a restituirci i contorni e i colori della nostra immagine.
Sabato scorso, dopo giorni molto freddi, ha nevicato, una spruzzata appena, ed era strano, la neve sugli alberi rossi, gialli, alcuni ancora verdi, nemmeno gli ippocastani si mostravano in quella nudità che d’inverno li fa sembrare così indifesi. Poi, dopo la neve, sole e aria limpida, colori intensi, una settimana di luce piena, nelle ore centrali del giorno un tepore quasi dolce, come un momento di pace, di ristoro. Oggi, invece, il cielo è tornato grigio, spesso, uniforme, e mi fa pensare all’andamento di una malattia, in cui spesso, prima della crisi più acuta, c’è una specie di apparente recupero, un’illusione del corpo e dell’anima , uno spicchio di luna un po’ opaco, la parte in ombra che non si vede ma è lì, anche se facciamo finta di dimenticarla.
Ho letto molto, in questo periodo, e ho preso anche un treno, qualche settimana fa. Il viaggio di andata al tramonto, pieno di attesa, e quello di ritorno preso al volo, senza biglietto, seduta a terra,  sui gradini in prossimità della porta di una carrozza stracolma, treno strapieno per un ponte che cominciava, la gente che partiva e io che tornavo, una giovane donna capo-treno o non so cosa che prima mi ha fatto il biglietto, gentilmente, nonostante io fossi “irregolare” e poi, ripassando, ha piegato le gambe, si è abbassata alla mia altezza, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto” Signora, va tutto bene? Posso fare qualcosa per lei?” Un moto di commozione, un calore. Le ho risposto che aveva già fatto molto, che la ringraziavo profondamente. Del suo sguardo, nonostante stesse lavorando, il treno pieno, rumori, voci. Un essere umano che non dimentica la propria umanità. Un gesto gratuito, non richiesto, inaspettato. Quel suo abbassarsi, e parlarmi accucciata sul pavimento, guardandomi in viso. Dal gradino su cui ero seduta non vedevo fuori, solo lo sportello davanti a me, e in alto, a tratti, uno spicchio di cielo. Di solito, in treno, mi piace guardare fuori, i luoghi e il tempo che scorrono, la varietà del paesaggio, la luce. Quel giorno, invece, mi sono sentita un punto nello spazio, dove qualcuno ha diretto il proprio sguardo. In un libro fulminante di Yasmina Reza, Felici i felici, uno dei personaggi, il Dottor Chemla, giovane oncologo molto affermato, che non conosce l’amore, che dell’amore vorrebbe provare “una certa forma di tristezza“, cerca di convincere i suoi pazienti del fatto che il presente sia l’unica realtà. “A volte, quando ero bambino, regalavo a mia madre un sassolino o una castagna trovati per terra. Le cantavo anche delle canzoncine. Offerte insieme inutili e immortali.” Così è stato il gesto di quella ragazza sul treno, non necessario e perciò indimenticabile. Sul comodino il Dottor Chemla tiene un piccolo libro di Rilke, Le elegie duinesi, dono di un paziente, che nel darglielo gli ha letto i versi iniziali “Ma chi, se gridassi, m’udrebbe dalle schiere / degli Angeli?” Non lo legge, il dottor Chemla, ma lo tiene lì, e la voce provata di Jean Ehrenfried che gli legge quei versi gli torna alla mente insieme al proprio inesprimibile desiderio di essere “consolato“. Quello che vogliamo veramente non si può dire, dice il dottor Chemla. Solo, a volte, accade, ed è già tanto se ci accorgiamo che sia accaduto. Nell’ultima pagina del libro, folgorante, è proprio Jean Ehrenfried, nella commemorazione funebre di un amico – dell’Amico di tutta la vita – che con il racconto di un fatto di molti anni prima, ci dice quello che tutti gli altri personaggi ci fanno intuire: la felicità è lì, a portata di mano, ma a volte ne siamo così spaventati da lasciarla andare. Siamo dei titani, dice ironicamente Jean Ehrenfried riportando le parole dell’amico morto. Il libro finisce con una battuta che ci fa sorridere amaramente e che ironicamente ci fa pensare. Siamo così, come due ragazzi spaventati e maldestri davanti a ciò che abbiamo così tanto desiderato. E come loro non siamo capaci di tenercelo. Perché? Non c’è un perché, dice il dottor Chemla “La complessità umana non si riduce ad alcun principio di causalità”. Già. Eppure ci affanniamo a voler capire il perché e il percome. Che sciocchi. Sarebbe così semplice. Le cose sono lì, come una castagna o un sassolino a terra, basterebbe allungare una mano e raccoglierle e stringerle, come il braccio di una persona amata. Sì, ha ragione Yasmina Reza: ci vuole un’attitudine per la felicità, per vederla, per coglierla, per coltivarla. Invece la maggior parte di noi si arrabatta, elucubra, si immagina e poi si spaventa. E fugge. Che sciocchi. Che titani.

Mnm  

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Di cieli grigi con riflessi di brace e di miracoli inaspettati. Aspettare bisogna, aspettare.

Dear the-Reader,

siamo quasi alla fine di ottobre e domenica si torna all’ora solare. Settembre è stato generoso, qui, luce, azzurro, temperature quasi estive, niente calze nè ombrelli per tutto il mese. Poi, il primo ottobre, cambio di stagione improvviso, finale d’estate sospeso, ingresso d’autunno su marcia trionfale. Pioggia, giorni grigi, grigi, grigi. Anche oggi è così, con un cielo gonfio quasi temporalesco, ma almeno la temperatura si è alzata. Mercoledì mattina, per la prima volta, non solo era ancora buio quando sono uscita di casa, ma era buio profondo anche quando sono uscita dalla metropolitana, ed erano ormai già le sette e mezza. Poi ho preso la mia macchinina – il mio tragitto prevede passi, metropolitana1, metropolitana2, passi, macchinina, passi – e mi sono avviata nella tundra padana, dove è rimasto buio fino alle otto o giù di lì. Ho pensato che sì, è tempo di tornare all’ora solare, anche se questo significa l’epifania della fine dell’estate. Eppure settimana scorsa ero volata in una Sicilia calda e luminosa, disegnata da una luce chiara, brillante di giorno per un sole limpido e di notte per una luna piena che saliva dal mare con uno strascico degno di una sposa in una fiaba incantata. Ho preso il sole e la luna, ho fatto il bagno, ho mangiato all’aperto, sono stata in silenzio su una terrazza alta sul mare, davanti a  me la campagna digradante, ulivi carichi che in quei giorni venivano alleggeriti dei loro frutti preziosi, e poi il mare, un golfo ampio e accogliente, punta Raisi in fondo, le luci rosse notturne per ricordarmi il ritorno. Tre giorni di meraviglia, di consistenza, di roccia e d’acqua, di luce, di silenzio e di parole, di parole e di silenzio, come in un contrappunto. Come una rinascita per prepararsi all’inverno. Sono tornata felice, pronta al cambio dell’ora e a quello che verrà. Poi, ieri sera, leggendo le ultime righe di Giobbe, di Joseph Roth, mi sono imbattuta in questa frase “Aspettare bisogna, Mendel Singer, aspettare!” e ho capito che quei tre giorni in Sicilia mi hanno dato molto di più di un po’ di sole e mare fuori stagione. Ho pensato che quei giorni mi hanno restituito un vago senso di miracolo. Non ci credo ai miracoli, perché lo so che non esistono, ma è come se la pace che ho sentito su quella terrazza e la sensazione di gioia dell’acqua fresca sulla pelle ad ottobre avanzato mi avessero mostrato una brace ancora accesa sotto la cenere, laddove si credeva che tutto fosse bruciato, e spento. Avviene il miracolo nel libro di Joseph Roth, in una forma quasi di fiaba, e Menuchim Singer, il figlio “minorato” storpio, muto, abbandonato, trasforma la propria sofferenza in musica e parola, e diviene Alexej Kossak, musicista, compositore che scrive “La canzone di Menuchim”, che commuove tutti coloro che la ascoltano. Avviene il miracolo quando Mendel Singer non ci crede più, e forse non ci ha mai creduto, e ha voltato le spalle a Dio e alla propria vita di uomo devoto. Davanti a una tazza di tè, sciogliendo lo zucchero col cucchiaino, in una giornata di festa, in una casa sconosciuta dove Mendel è pietosamente ospitato dopo le terribili tragedie della sua vita, Menuchim si rivela al padre e rivela il miracolo che è in sè, e solo allora, attraverso le parole dette davanti a tutti, il miracolo è veramente compiuto. Ride Mendel, e poi piange, e poi si calma. E si affida. Si affida al figlio ritrovato che il dolore ha fatto saggio. “Vuoi sapere dove andiamo, babbo?” chiese il figlio “Non voglio sapere nulla! Dove vai, va bene”. Mendel si affida, e anche questo è un miracolo. Sì. Ho pensato ieri sera alla fine del libro che quelli in Sicilia sono stati giorni miracolosi. Che era tanto che mi sentivo solo come Alihodza, ne “Il ponte sulla Drina”, magnifico romanzo di Ivo Andric che ha come cuore un ponte, dalla sua costruzione, come atto devoto di un uomo illuminato per unire l’oriente e l’occidente, alla sua distruzione, dopo secoli e secoli, tra due mondi in guerra. Anche Alihodza è un uomo devoto, come Mendel Singer, seppure a un Dio diverso. Ma a differenza di Mendel, non è Dio che Alihodza teme, ma gli uomini e le loro azioni. Da quando il settimo pilastro del ponte viene scavato e minato dagli austriaci, e per tutti gli anni seguenti, mentre il resto della città dimenticherà il cunicolo pieno di esplosivo nascosto nel cuore della costruzione e non farà più caso alla botola di ferro sul selciato del ponte, Alihodza ci penserà ogni giorno della sua esistenza, guardando dal suo negozio le arcate del ponte, e noi con lui. Lo sappiamo dall’inizio che finirà così, lo sappiamo forse ancora prima di leggere che il ponte viene minato, eppure fino all’ultimo qualcosa dentro di noi ci fa sperare che possa finire diversamente, e che quel ponte possa continuare ad essere luogo di incontro, di passaggio, di storie tristi e felici, di vita. In fondo speriamo in un miracolo. Ma Alihodza no. Alihodza lo sa in ogni fibra e in ogni pensiero che non sarà così. Il pilastro minato del ponte salterà, una voragine, un buco, i due monconi del ponte sospesi sul fiume a gridare l’orrore delle azioni umane. Una pioggia di pietre e di detriti sul negozio di Alihodza, lui che viene colpito, che cerca di salire la collina verso la sua casa, il respiro come un rantolo, ”davanti agli occhi la scena del ponte demolito che sembra precederlo. Non è possibile volgere le spalle a una cosa perché essa cessi di perseguitarci e di tormentarci.”  Non c’è miracolo possibile, nemmeno agli occhi di un uomo devoto che riesce a non rinnegare Dio nemmeno morendo di morte violenta. Non c’è miracolo possibile, perché siamo esseri umani e con gli esseri umani abbiamo a che fare. Così ho pensato per molto tempo, come Alihodza, ma nello sfavillio siciliano ho cambiato un po’ idea, almeno un po’. Ho sentito la brace, sotto la cenere, e me ne sono accorta adesso, dopo qualche giorno che sono tornata, leggendo la fiaba di Menuchim. Fuori è grigio senza scampo, ma sul mio balcone c’è ancora qualche fiore, qualche campanella viola, qualche plumbago, le vinche bianche e un fiore di verbena. Sabato al mercato comprerò qualche ciclamino, di quelli piccoli, e li metterò al posto delle petunie che ormai si sono seccate. Dear the-Reader, è tanto che non le scrivo, e avrei molte cose da raccontarle, come della stazione di Bologna che non è più la stessa, da quando per andare a Roma si passa sotto terra, e dà la sensazione di un braccio rotto, o della nuova piazza di Milano, liquida e grigia, o di altri libri, di altri pensieri. Ma qualcuno mi ha un po’ sgridato, e mi ha detto che scrivo cose troppo lunghe, troppo scritte, troppo tutto. Lo so da me, ma è che un po’ mi scoccia sentirmelo dire, e allora cerco di contenermi, e smetto qui, anche se lo so che sono già – parecchio – fuori misura. Mi chiedo sempre che tempo ci sia da lei. Che colori nel suo orizzonte. I miei sembrano solo grigi, a prima vista, ma non è così. C’è un po’ di brace intensa, sotto il grigio. È bello, bellissimo.

Le mando un abbraccio color di brace, così, per giocare un po’ con le parole. Se c’è il sole, da lei, mi pensi quando lo sentirà sulla pelle. Se invece fa freddo o piove, pensi alle parole dell’amata Szymborska, che di miracoli se ne intende. l’inimmaginabile è immaginabile” dice, e ha ragione, è proprio questo, il miracolo.

Mnm

Ho aspettato a imbucare, come sempre. Adesso è il giorno dopo, c’è un cielo azzurrissimo, e sole. Andrò al mercato a scegliere ciclamini pieni di colore, che dicano del miracolo che è in loro e nel cielo azzurro di oggi, inaspettato.

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Di un film senza parole che dice molte cose, in forma di concerto, sotto il sole di Hiroshima, in una notte d’estate. Just like the movies.

Dear the-Reader,

qui piove, agosto va a finire e l’aria un po’ stralunata e metafisica di queste settimane volge inesorabilmente a un cambiamento. Le strade si stanno riempiendo, e il silenzio dei giorni passati si trasforma un po’ alla volta nel consueto rumore di fondo, e tra poco le strade d’estate in cui si poteva quasi sentire il battito del proprio cuore e di quello della città che non sembrava più invisibile, saranno solo un ricordo di una stagione che è finita. Ma prima di voltare la pagina del calendario su settembre, tempo di nuovi inizi e di buoni propositi, il vero capo dell’anno, per quanto mi riguarda, voglio ancora mandarle una cartolina estiva, prima che l’eco di questo tempo mi sfugga tra le pieghe della vita quotidiana che ricomincia col suo ritmo serrato.
Questa è stata un’estate di cinema all’aperto e di concerti, di suoni e visioni mescolati a pensieri più o meno vaghi, a molte letture e a molti moti dell’animo difficili da decifrare. Il 22 agosto, all’auditorium di Milano, un momento di un’intensità delicata e spiazzante al tempo stesso, poca gente, purtroppo, ma una densità di pensiero e di bellezza, di intelligenza e di generosità che avrebbero meritato il teatro stracolmo e una lunga lista d’attesa per entrare. La musica di Liszt e la musica di Paolo Marzocchi, per pianoforte solo e suoni elettronici, colonna sonora di un incredibile film di cui non sapevo nulla e che quella sera mi ha stupefatto, per la qualità dell’idea, per il montaggio, per il risultato, che è tale anche, in corrispondenza di amorosi sensi,  per la musica di cui voglio parlarle. Un regista polacco, Michal Kosakovski, ha fatto un film  sull’11 settembre che si intitola “Just like the movies”, un corto di una ventina di minuti. Il film è fatto montando spezzoni di altri film tutti girati prima dell’11 settembre, senza nemmeno un fotogramma ripreso quel giorno o successivamente. Non c’è una parola, solo un collage di immagini pregresse e la musica scritta ad hoc, una sorta di film muto come muto è lo sgomento e non c’è parola che lo possa dire. La musica, invece, non solo dice, ma descrive, commenta, esprime, suggerisce, anticipa, racconta, rafforza e in alcuni momenti sembra contrastare, ma solo apparentemente, le immagini, e invece dice oltre quello che si vede. Dice il tempo sospeso, il tempo dilatato, il tempo contratto, centrifugato, il tempo della paura, dello sbigottimento, del dolore, della frenesia, dell’immobilità, il tempo della memoria, della tragedia, della vita, della morte, il tempo della luna e del sole, del giorno e della notte più profonda, del passato e del futuro, di ciascuno e di tutti. Una musica che dice il tempo che non sarà più uguale a se stesso. Dice il tempo riassunto in una data, perché non c’è altro modo di dirlo, giorno e mese ficcati nella memoria di ciascuno di noi, per sempre, senza nemmeno l’anno, come se 11 settembre sia, da allora, solo quell’undici settembre. Nella sala silenziosa, il film proiettato e la musica eseguita dal vivo, il pianista senza partitura che guarda le immagini prima di ogni attacco, le immagini e la musica come allo specchio, anzi in un gioco di specchi, di rimandi di anticipazioni di inseguimenti, non un tappeto sonoro per il video, ma due voci, due linguaggi che si mescolano per restituire, potente, struggente, un giorno diverso da qualsiasi altro. All’uscita dall’auditorium ho pensato a molti libri, libri che raccontano con gli occhi di qualcuno un evento della Grande Storia, che molti hanno vissuto ma pochi sanno raccontare, libri in cui un bombardamento, una rivoluzione, lo scoppio di una guerra, la proclamazione di una pace o qualsiasi altro fatto “storico” si trasformano dentro di noi in qualcosa di reale, anche se non l’abbiamo vissuto, perché qualcuno che c’era – o che non c’era, a volte non importa, perché quello che conta è la capacità di narrare – ce lo racconta. Mi è venuto in mente tra gli altri un libro che ho letto da ragazzina, forse addirittura alla scuola elementare, che è uno dei libri che hanno segnato il mio destino di lettrice. Si intitola “Il gran sole di Hiroshima”, l’autore non me lo ricordo, poi lo cercherò per inserirlo nell’elenco dei libri, ma mi ricordo molto bene la copertina, di cartone rigido lucido, rosso lacca, un gran sole molto luminoso, troppo, con un cuore quasi bianco, un sole con qualcosa di irreale, i raggi gialli come lame luccicanti, il titolo in un nero largo e carico impresso sopra il sole, e in primo piano una bambina giapponese disegnata come allora ce le immaginavamo, con gli occhi a mandorla, le treccine nere, il cappello conico di paglia, uno sguardo ammutolito. Due cose mi ricordo di quel libro, a distanze geologiche, senza mai più averlo ripreso, mi ricordo i due bambini protagonisti che attraversano un parco della città nella calura estiva, e questo gran sole improvviso che si palesa davanti a loro, mi ricordo la sensazione straniata del tempo che si ferma, che si espande che si concentra, la stessa sensazione della musica di Paolo Marzocchi per le immagini di un’altra data estiva, di altri bagliori, di altri crolli. E poi mi ricordo il finale, tragico, la piccola – Sadako, mi sembra – che a dieci anni di distanza porta dentro di sè le tracce radioattive, l’ospedale, le gru di carta che costruisce tutti i giorni perché se arriverà a mille gru sarà salva, così le ha detto qualcuno. Le mani che piegano la carta, come in una preghiera, come in un rituale per esorcizzare la morte. Ma le mani si fermano prima di aver raggiunto le mille gru. Non c’è salvezza, qualsiasi cosa si faccia, sembra dirci l’autore. Il film del regista polacco ha come ultimo fotogramma una distesa d’acqua grigia con uno sfondo di cielo grigio e nero, temporalesco, e le sommità delle torri gemelle che, sole, ancora spuntano dalle acque. A prima vista, quella sera, ho pensato che tutto sta per essere sommerso, ma il giorno dopo, riguardando quegli ultimi momenti, ho pensato che forse, invece, tutto sta riemergendo, non è chiaro, è tutto grigio, e nell’ultimo fotogramma il livello dell’acqua sembra abbassarsi, ma c’è una dissolvenza, tutto si sfuoca, quadro nero, la musica che continua, ipnotica, qualcosa che rapisce, e poi, sempre su quadro nero, le scritte di regia e di musica, e via via i titoli dei film utilizzati, la musica che non si ferma, i nostri occhi fissi allo schermo, come se sperassimo che non sia quello il finale. Forse è per questo che mi è venuto in mente Il gran sole di Hiroshima, perché a distanza di tanti anni, dopo tante letture e tanti ascolti e tante visioni, ho sentito identico il senso di tragedia collettiva che allora non sapevo decodificare, ma di cui avevo avvertito il peso emotivo e in un certo senso quasi fisico, il peso di qualcosa che coinvolge tutti e da cui non c’è ritorno. E  forse anche per un’altro motivo mi è venuto in mente quel libro: all’inizio del filmato, dopo la prima immagine, due picchi rocciosi nel plenilunio, la musica che cresce di intensità e aumenta di velocità, sempre di più, e le rocce che si trasformano e diventano le torri gemelle nel plenilunio, qualcosa di primitivo e di futuribile insieme, dopo questa prima immagine, dicevo, sullo schermo appaiono dei raggi luminosi che partono da un centro e si sprigionano verso l’esterno, talmente luminosi da dare fastidio, gialli, bianchi, verdi rossi, il titolo in nero spesso che avanza verso di noi, implacabile, i raggi sempre più luminosi e grandi, la musica che cresce e sembra deflagrare, in un certo senso già un’anticipazione di quello che sarà, proprio come nella copertina lucida di cartone rosso della mia infanzia.

Ha smesso di piovere, ora, il cielo è azzurro e i fiori del mio balcone, vinche bianche e plumbago azzurro carico, e verbena rosso intenso, luccicano di pioggia mandando riflessi che un’ora fa sembravano impensabili. Volevo raccontarle tutto il concerto, anche Liszt, Paolo Marzocchi che racconta e spiega – che bello, come a Ferragosto, il templi della musica che aprono i battenti alla parola, finalmente – una scaletta costruita sulla musica a programma, un filo rosso di racconto che unisce tutto quanto, e infine, dopo il film, la canzone albanese di cui le accennavo l’altra volta, perchè, sapientemente, l’autore non poteva lasciarci lì con quello sgomento negli occhi e nelle orecchie, e voleva riportarci alla vita, al ritmo, alla gioia di una danza in una sera d’estate. E poi, ancora, generosamente, un altro Liszt, per tornare al punto di partenza, per dire le proprie origini, Paolo Marzocchi ama Liszt e ne è ricambiato, come fosse scritto sul muro di una stazione della metropolitana, note musicali che formano un cuore, e il cuore batte e batte, in forma di cadenza; avrei voluto raccontarle tutto il concerto, dicevo, ma mi son fatta prendere la mano e il cuore e il cervello da questa “cosa” straordinaria, immagini e musica, un racconto e molto di più. Su internet c’è, diviso in due parti, e le metto i link. Purtroppo mancano i titoli di coda, con l’elenco dei film utilizzati, o almeno io non li ho trovati. Alcuni li ho riconosciuti, mentre guardavo, ma solo all’inizio, poi, man mano che procedevo nella visione, il gioco del riconoscimento l’ho dimenticato, perché sempre di più era altro che cercavo di cogliere, di leggere tra i suoni e tra i fotogrammi, come di solito faccio tra le righe. Certo a teatro, palco vuoto, solo il grande pianoforte nero, lo schermo sul fondo, il musicista girato di tre quarti che aspetta l’immagine, la sala silenziosissima, la sensazione percettibile di condividere stupore e meraviglia, applausi e applausi e applausi, nonostante il pubblico poco numeroso, certo a teatro è stata un’altra cosa. Ma è talmente bello che vedrà, le piacerà anche così, con il pianista dentro allo schermo, come in un film. Adesso la saluto, purtroppo la piscina è ancora chiusa, ma ho bisogno di muovermi, e andrò a fare una passeggiata. Lunedì ricomincio a lavorare, e bisogna che me lo goda questo sole che è uscito. Chissà se da lei c’è il sole, o piove. Chissà come le sembra leggere queste mie lettere senza palesarsi. Mi piace pensare di suscitare in lei qualche moto dell’animo, ogni tanto, dato che la vedo ritornare, e poi mi piace anche pensare che c’è lo sguardo di qualcuno, dall’altra parte dell’oceano, che ogni tanto si gira proprio in questa direzione, proprio verso questo punto, nonostante tutti gli altrove possibili. Basta, smetto subito, oggi sono stata così brava, niente malinconie o sentimenti sdrucioli, per una volta. Ecco, qui ci sono gli indirizzi delle due parti del film.
Prima parte: http://youtu.be/drO3Hlu93m4
Seconda parte: http://youtu.be/dsIx_7ODpoA

Come le ho detto, lunedì ricomincio a lavorare, e non è che voglio mettere le mani avanti, ma penso di poter ragionevolmente supporre che questa scrittura subirà dei rallentamenti piuttosto significativi. Glielo dico così, casomai lei si aspettasse qualcosa. Stasera però, vado a sentire Haendel, ultimo concerto di agosto, in attesa di Mito a settembre. È bellissimo, c’è musica continuamente. Se solo l’estate non finisse…

Mnm

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Di pomodori azzurro pallido e di letture tra le righe, confidando in un pentolone.

Dear the-Reader,
giornate bellissime, sole limpido e temperatura senza eccessi, un po’ d’aria fresca e cielo che mi fa riconciliare, almeno provvisoriamente, con il tetro umore padano. L’altro giorno ho fatto una cosa inconsueta, e perciò voglio mandarle una piccola cartolina. Qualche giorno fa ero andata in campagna, nell’Oltrepo pavese, a trovare degli amici. Colline, vigneti, campi di mais rigogliosi, il Ticino, il Po: mentre guidavo, tornando, la sera, il sole all’orizzonte, colori come frutti d’estate, pesca albicocca mirtilli ribes, e le ombre lunghe degli alberi sui campi scuri di terra o morbidi del colore del granoturco. Ho comprato dei pomodori a chilometro zero, quel giorno, quasi venti chili, e li ho portati a casa in due cassette di cartone. Il giorno dopo li ho lavati e asciugati. Nella mia cucina di tutti i colori i pomodori rossi sul tavolo, nel lavandino, dovunque, dicevano la pienezza dell’estate e un sole che scende in una sera chiara. Ho scongelato il freezer, che portava macroscopici segni di un’incuria troppo a lungo protratta, ho tagliato, lavato e asciugato il basilico del mio balcone. Poi ho “imbustato” pomodori e basilico in sacchetti di plastica trasparente, che ho chiuso accuratamente. Alla fine erano lì, sul tavolo, in fila. Lettere da spedire all’inverno per rammentarsi l’estate. Gli altri anni mi limitavo al basilico, in piccoli cartocci di stagnola, e quando ne aprivo uno mi arrivava un guizzo improvviso d’estate che mi faceva provare una gioia segreta. E l’altro ieri, quando ho guardato i sacchetti allineati, rossi, una punta di verde qua e là, ho pensato che era stata un’ottima idea, che stavo facendo qualcosa che renderà tutto più lieve, e che più degli altri anni mi stavo preparando. Mi sono sentita come se quei pomodori li avessi seminati, coltivati, raccolti. E ho immaginato che ogni volta che aprirò un sacchetto  penserò a una bellissima giornata d’estate e a lame di luce sul tavolo della mia cucina, e riassaporerò uno strano struggimento dei sensi, come un bacio, come una carezza. Lei non ci crederà, quasi non ci credo nemmeno io, ma è stato bello. Quando ho finito, i sacchetti sistemati, la cucina insolitamente ordinata, le cassette portate subito nella spazzatura, le finestre aperte su voci dal cortile, mi sono messa a leggere un romanzo di Franz Werfel, un romanzo che gira intorno a una lettera, tanto per cambiare, e mi sono imbattuta in una frase che mi ha fatto per un po’ smettere di leggere: “Il nostro avvenire – del protagonista e di sua moglie, che sta per leggere una lettera apparentemente molto formale che lui ha ricevuto, scritta con un inchiostro azzurro pallido – dipenderà dal fatto che lei sappia o no leggere tra le righe.” Dipenderà dal fatto che lei sappia o no leggere tra le righe. Lei sa leggere tra le righe, signor Lettore sconosciuto d’oltreoceano? È crudele il romanzo di Werfel, e indaga spietatamente tra le righe dell’animo umano. Un uomo, due donne, un abbandono, in un certo senso due. Un uomo che sa ma non vuole leggere tra le righe, “che sa con chiarezza indicibile che gli è stata inviata un’offerta di salvezza, oscura, sommessa, irresoluta, come tutte le offerte di questo genere. Sa di non essere stato capace di raccoglierla. Sa che a questa non faranno seguito altre offerte.” L’ha letta tra le righe, l’offerta di salvezza, ma ha girato la testa dall’altra parte, il nostro Leon, come la società viennese che così degnamente egli rappresenta. E Amelie, sua moglie, che ha letto nella sola presenza fisica di quella lettera scritta in azzurro pallido l’imminenza e l’immanenza di un grande dolore, ma non è capace o non vuole, chissà, andare oltre e si ferma, e quando legge la lettera incriminata non vede i segni che avrebbero dato ragione al suo intuito di femmina ferita. Poi c’è Vera – nomina sunt omina – che di leggere tra le righe non avrebbe bisogno, perché la realtà è stata talmente dura, con lei, da non lasciarle alcuna possibilità di interpretare le cose diversamente da come sono. Eppure Vera legge i segni, e rilegge nelle rose gialline che Leon le regala dopo tanto tempo, il putridume mortifero di lui, il suo voltare la testa dall’altra parte, il suo essere un uomo di legno. Werfel non fa sconti, al suo protagonista, alla società viennese appena prima della guerra, alla pubblica amministrazione di un paese che sta per sprofondare nell’abisso e si rende complice di una compiacenza strisciante nei confronti di chi tra poco sarà dominatore. Sembra un entomologo, Werfel, e in poche pagine analizza, viviseziona, espone allo sguardo mondi pubblici e privati, bisturi tagliente e precisione microscopica.
Quando ho finito il libro, nella stessa notte, ho pensato che è una condanna, leggere tra le righe. Ho rivisto i sacchetti rossi sul tavolo, e ho improvvisamente capito che era un modo che avevo messo in atto per “conservare”, per cercare di fermare il tempo e l’inesorabile passaggio delle stagioni, e che solo apparentemente riguardava i pomodori e il basilico. È altro che volevo conservare, la luce, il colore, il sapore dell’estate, certo, ma soprattutto un senso di felicità, di gioia, di pienezza e di appartenenza che riguardano stagioni del corpo e dell’anima che sono irrimediabilmente perdute. Eppure, mentre lavavo, asciugavo, imbustavo, mi sentivo così bene, come Amelie che legge la lettera di Vera e non capisce, o fa finta di non capire, e davvero pensavo che fosse tutto lì, colore e sapore estivi incellofanati per l’inverno. Sì, è una condanna leggere tra le righe, perché si vedono cose che non si vorrebbero vedere, di sè e degli altri. È una condanna perché poi, quando le cose si sono viste, bisogna inevitabilmente decidere cosa fare, e spesso è una decisione dolorosa che bisogna prendere. Perché o si fa finta di non aver visto, come Leon, e ci si autoassolve continuamente dopo aver girato la testa dall’altra parte, o si decide di non guardare oltre, come Amelie, perché oltre non si vuole vedere, oppure si assume su di sè la lettura tra le righe, come Vera, che di fronte alla vigliaccheria senza midollo di Leon, è capace prima di sarcasmo, e poi di dire seriamente “Lei non ha il diritto… “, e di abbandonare senza appello la stanza buia piena di paccottiglia e del profumo delle rose che “fluttuava verso l’alto, più forte di prima, in onde rotonde e lievemente putride.” Vera che è ebrea, e se ne sta andando A Montevideo, dove forse un’altra vita sarà possibile, Vera che sa sulla propria pelle che “Al mondo non c’è niente di ovvio”, nemmeno ciò che di cui si pensava di avere la massima certezza, come l’amore un tempo declamato di Leon. Un bellissimo, profondo romanzo, una ferita da taglio, una rivelazione.
Dear the-Reader, in realtà volevo anche scriverle di un’altra cosa, un concerto pieno di bellezza a cui sono stata, ma oggi non sono dell’umore giusto, e quella serata merita altro che questa trepida malinconia che oggi non riesco a scacciare, e che mi fa arrabbiare con me stessa, che sono capace perfino di rovinare una cosa bella come la conserva dei pomodori, che non avevo mai fatto e che mi aveva fatto sentire così bene. Ma è possibile? Mi piacerebbe andare in piscina, oggi, ma quella che frequento è chiusa, in questi giorni. Ce ne sono altre, lo so, ma è lì che mi piace andare quando ho grovigli di pensieri. Magari prenderò la bici, e farò un giro. C’è qualche nuvola, adesso, un po’ di cielo a pecorelle e una luce più opaca. Sono contenta, però, perché se oggi dovesse piovere questo significherebbe che sono andata a comprare i pomodori al momento giusto, dopo  molte giornate di sole, e che quelli della settimana prossima saranno un po’ meno estivi, bagnati di pioggia. L’altra volta ero più allegra, lo so. È un po’ come un’altalena, è così e basta. Sarà stata la scrittura azzurro pallido, non so, o lo smalto delle unghie che dura come un desiderio effimero, o agosto che avanza implacabile verso settembre, ahimè. Sì, oggi farò una passeggiata, o andrò a vedere qualcosa di bello: magari esco subito, e vado al mercato, e nonostante me stessa comprerò altri pomodori, e farò una salsa profumata con molto basilico, perché sul mio balconcino ce n’è ancora, e aspetta di essere usato prima che sia troppo tardi. Vede? Mi sta già passando. Per fortuna so leggere tra le righe, e dirmi ironicamente che è ora di finirla con questo azzurro pallido cianotico: via, al mercato, colori pieni e voci vivaci. Le scriverò presto, perché il concerto di cui voglio parlarle merita che io mi imponga sulla mia pigrizia azzurrina con note molto colorate. Domani sera ci sono le sonate di Corelli, in una chiesa il cui interno non mi sembra di aver mai visto. Magari invece ci sono già stata, e non me ne ricordo. Vedremo. Nell’attesa cuocerò la salsa, andrò in bici e, forse, mi dipingerò le unghie di azzurro, non pallido, però. Cercherò anche di srotolare matasse cerebrali mescolando in cerchi concentrici nella pentola della salsa, perché va bene leggere tra le righe, ma se le righe diventano quadretti, e poi quadrettini, e si infittiscono, e perdono forma e allineamento, e si aggrovigliano in spirali sempre più strette, bisogna intervenire, cercare un filo e srotolare, ridefinire, allineare. Sì, vado al mercato. Quando leggerà queste parole mi pensi come a una strega che mescola nel pentolone, perché la salsa ha bisogno di tempo, e di attenzione, perché se no si attacca facilmente. Mescolare, mescolare, impedire di attaccarsi e di bruciare. Intanto ascolterò qualcosa di allegro, di vitale, di mosso, non so, magari della musica balcanica, come le Albanian folk songs  per pianoforte di Paolo Marzocchi, di cui presto le racconterò con calma.
A presto, mescolando nel pentolone
Mnm

ps. senta un po’ che bellezza… Paolo Marzocchi, Albanian Folk song n.5, composizione ispirata a una canzone popolare albanese, e poi trio Ayesha ispirato a Paolo Marzocchi. Mi piacciono queste concatenazioni, ma lei lo sa già. Comunque ne riparliamo presto, appena ho fatto la salsa e smaltito – come una sbornia – l’azzurrognolo che mi attanaglia.
http://www.youtube.com/watch?v=mK19EwxqHFs&feature=share&list=PL1E1F359AB5E5E3D2
http://youtu.be/1eBbseXLYw8

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Di un Ferragosto di Stagioni vitali, di passioni e di lettere d’amore. E di unghie laccate di rosso, doucement.

16 agosto 2013

Dear the-Reader,

Ieri era Ferragosto, e Milano era radiosa come raramente le è dato di essere. Una luce limpida senza alcuna velatura, un cielo bello come certi cieli di Roma, un’aria fresca e chiara, il silenzio, una luna crescente quasi di tre quarti che è sorta nel pomeriggio, algida, e poi si è avvicinata, si è ingrandita, e la sera era lì, bassa, che spuntava da ogni tetto e tra le case, prepotente, come a dire, eccomi, sono io. Milano è leggera, in questi giorni. Il caldo immobile e melmoso della prima settimana di agosto che ha seccato le foglie degli ippocastani togliendo loro quell’aspetto turgido da piena estate si è dileguato, e c’è qualcosa di nuovo nel modo in cui la luce avvolge le case e le strade, qualcosa di lieve. E poi Milano è piena di musica, di cinema all’aperto in luoghi di grande bellezza, di concerti in chiese spesso chiuse che in questo periodo sono aperte per accogliere e offrire suoni e incanto. Come la voce di Emma Kirkby, qualche giorno fa, a San Pietro in Gessate, con Claudio Astronio che dirigeva Harmonices Mundi. E davvero, in quella chiesa, piena, nonostante agosto, nonostante un temporale stizzito mentre la gente era in attesa all’aperto di comprare il biglietto, davvero in quella chiesa, sotto lo sguardo di angeli musicisti dalle ali colorate, gialle, rosse, rosate, ocra, verdi, viola, gli strumenti e la voce si sono mescolati come colori e l’impasto era dolce come una pastafrolla, senza nessuna stucchevolezza, e i pianissimo di Emma Kirkby si sono infilati nelle orecchie e nell’anima, doucement. Non ho trovato nessuno dei pezzi eseguiti quella sera, perciò metto qui un brano di Monteverdi, in cui la voce della cantante mi commuove come la prima volta che l’ho sentita. Lei ha visto il film Shine? Alla fine sui titoli di coda, Emma Kirkby canta “Nulla in mundo pax sincera”, di Vivaldi. Una folgorazione. Quella volta, uscita dal cinema, mi sono infilata in un negozio e ho comprato la colonna sonora del film, e quel brano l’ho ascoltato e riascoltato, e lo ascolto e lo riascolto, come questo “Lamento della ninfa”, con quei quattro “mai” in sequenza che raccontano l’offesa profonda di un corpo e un’anima altre preferite a quelle della ninfa che canta, la voce come un pianto e un sussurro, lo strazio e il dolore dell’abbandono, e la domanda “perché” nascosta in ogni piega della voce, in ogni respiro. Ma un perché non c’è, se non la nostra natura di esseri fragili, e la natura stessa dell’amore, che come si dice nella chiusa “mesce fiamma e gel”. Una voce che stordisce, che s’insinua, che che cerca nel corpo i nascondigli dell’anima. Ma basta, non voglio essere malinconica, lo sono stata troppo, e il cielo è così azzurro, oggi, e nel silenzio si sentono voci di uccelli, proprio ora, proprio qui, che mi riportano ad altri suoni che volevo raccontarle. Le metto un’indirizzo, se fosse in vena di ascoltare Emma Kirkby. http://youtu.be/z3ZX5hFN-is
Ieri sera, invece, sono andata all’auditorium per un concerto che mi ha divertito, emozionato, addirittura fatto ridere. Un’orchestra barocca versus e con un ensemble jazz. Le quattro stagioni di Vivaldi, suonate una alla volta, prima dalla Verdi Barocca, con la direzione di Ruben Jais, e poi dalla Crescendo Big Band di Sandro Cerino. Uno spettacolo magnifico: due mondi diversi, nell’abbigliamento, nella postura, negli strumenti usati, nel linguaggio, anzi, nei linguaggi, nella melodia, nelle armonie, nell’idea di solista e di insieme. Mescolanze timbriche lontanissime che si alternavano e si rincorrevano, in un apparente cimento. Filo conduttore Vivaldi e la vitalità della musica, delle musiche. Il teatro pieno di gente – eterogenea come i musicisti – che come me si è divertita, ha guardato la varietà di strumenti a fiato che i jazzisti suonavano e che stavano schierati davanti a loro, diversi strumenti per ogni esecutore, flauti, clarini saxofoni di tutte le forme e di tutte le misure, e poi pianoforte e clavicembalo, archi sfregati, pizzicati, trombe, corno, batteria, un’ocarina o qualcosa del genere, trombone, tuba. Il rito serioso della musica classica rotto fin dall’inizio, Ruben Jais che saluta il pubblico con un “Buona sera”, e racconta la libertà d’interpretazione della musica barocca, e la libertà del Jazz, e la bellezza di lavorare insieme. “Buon ferragosto”, e il concerto inizia. E poi, alla fine, un pezzo a orchestre riunite, ironicamente intitolato “Alta stagione”, uno spazio per tutti i timbri, e Sandro Cerino istrione, divertente, a tratti esilarante, e i musicisti presentati uno a uno, nome cognome e strumento, e aggettivi per dire le sonorità profonde o lievi degli strumenti, come a dire che tutti hanno la loro parte, che l’insieme funziona se ciascuno dà il suo contributo. Un concerto gioioso, e in un certo senso, un concerto di speranza. Mondi diversi che si mescolano per regalare passione. Perché sì, era la passione la nota dominante. Uscendo, mi sono sentita bene, e il pizzicato ritmico dell’orchestra barocca che racconta la pioggia d’inverno si mescolava nella mia testa al flauto soffiato distorto aggredito vezzeggiato dell’aria primaverile nella partitura di Cerino. La sera estiva era bellissima, pulita, la luna ancora visibile, quasi tattile, le strade del ritorno magicamente silenziose, come lo era stata tutta la giornata. La giornata ideale per fare una scorpacciata di suoni, di soffi di pizzichi di sussurri di rimbombi. Il silenzio e i suoni, il giorno e la notte le stagioni che tornano ma se ne vanno, o se ne vanno ma poi tornano. Sì, ieri sera ero allegra, come per qualcosa di inaspettato. E poi, come si sa, l’estate mi regala vibrazioni, ritmi, variazioni, mi tocca corde, mi muove desideri. Ho girato in macchina per la città, ho fatto strade inconsuete, deserte. Ho guardato edifici e piazze che sembravano appartenere a un altro luogo, ieri sera. Milano sembrava una quinta teatrale, misteriosa e vaga, che con qualche pennellata inventa un luogo che non esiste.

Ho interrotto questa lettera; raccontare del concerto mi ha messo così di buon umore che ho fatto una cosa inconsueta: mi sono dipinta le unghie, con calma, cercando di non lasciare spazio ad alcuna sbavatura. Un rosso quasi cremisi, o forse di Alizarina, che non è proprio il rosso lacca che tanto mi piace, ma è appena un po’ più scuro. Ma la perfezione, si sa, non è di questo mondo, e aver deciso di uscire per comprare uno smalto, il 16 d’agosto a Milano, averlo trovato di una gradazione che mi piace, anche se non è proprio quella che avevo in mente, averlo steso con cura, mi sembra già abbastanza miracoloso. E così, Caro the-Reader, digito sulla tastiera con le mie unghie laccate, che si muovono sui tasti bianchi come piccoli arpeggi leggeri. Mentre mi dipingevo le unghie, il pennellino intinto nello smalto, la goccia di colore che non deve toccare la pelle e deve essere subito stesa, mano ferma senza tentennamenti, sapersi fermare al momento giusto, proprio sul limitare, mi è venuto in mente un romanzo che ho appena finito, di Cathleen Schine, La lettera d’amore, che ho comprato qualche tempo fa su una bancarella di libri usati perché mi piaceva il titolo, perché amo gli epistolari, le lettere, i romanzi che contengono lettere e cose così. Un romanzo lieve, per una volta, costruito con sapienza, una pennellata dopo l’altra, rosso lacca di desiderio, rosso cremisi di passione, albicocca di giovinezza, rosa garrulo da civetta, nero di inchiostro su carta bianca, parole lette per caso in una lettera scritta a macchina con nomignoli al posto del mittente e del destinatario, parole che una volta scritte diventano di chi le legge, perché è proprio così, una lettera, come un romanzo, non è più del suo autore, ma di chi la legge. E tutti, – tutti – quelli che in qualche modo leggeranno quella lettera, penseranno e desidereranno che sia stata scritta per loro, pur sapendo che non è così. Parole sulla carta – scritte per finta, come si scopre alla fine, perché sono parte di un romanzo – che però si insinuano, fanno vibrare, scuotono, perquotono, insufflano, movimenti, pensieri contrastanti che si affrontano come nemici, desideri, ragionamenti più o meno saggi, perfino sentimenti. Che cosa significa innamorarsi? “È come rimanere sull’orlo di un precipizio, per sempre?” E quando è la soglia oltre la quale diciamo “che la passione diventa amore”? Questo si chiede Helen, libraia seduttiva e civetta, abituata a fare e disfare, condurre, sedurre, guidare sempre lei, in macchina, in libreria e nel desiderio, dopo che la lettera innesca un gioco sottile, prima mentale e poi fisico, a cui lei non vuole e non sa sottrarsi. La passione letta nei libri e ascoltata nella musica che si fa carne e diviene riconoscibile, nel corpo di Johnny, nella sua camicia di giovane maschio sul proprio corpo di quarantenne disincantata. Ho pensato a Johnny, mentre mi laccavo le unghie di rosso, che guarda Helen con la propria camicia addosso e ne trae un sentimento di intimità più forte del sesso. Eccolo lì, l’amore che spunta dalla passione, come i temi di Vivaldi che, nascosti e apparentemente introvabili, improvvisamente ritornano riconoscibili nelle variazioni jazz della band di Cerino. Johnny che ha vent’anni e la bramosia, la bellezza, l’insolenza della sua giovinezza. Johnny che bacia Helen senza chiedersi se sia politicamente corretto o giusto o saggio o chissà che. Johnny che ha il coraggio incosciente di dirsi e di dire prima il suo desiderio e poi il suo amore per Helen, a differenza di lei, che tergiversa aspetta si indispettisce combatte cede e infine, anche quando lo sente affiorare sulle proprie labbra, non vuole scriverlo, quel ti amo, “così concreto, così eterno. O forse ho paura che metterlo per iscritto non serva, che metterlo per iscritto ne riveli la fuggevolezza, Ti amo, così fragile.” Lo scrive nell’ultima pagina, Helen, su una cartolina, e aggiunge per sempre. Poi la imbusta, mette il francobollo e la ripone in un cassetto della sua libreria dipinta di rosa, accanto alla lettera d’amore che ha ricevuto per caso. Cerca la chiave del cassetto, ma non la trova “A quanto pare l’aveva persa.” Non sappiamo se la cartolina verrà spedita. Mentre soffiavo sulle mie unghiette brillanti, ho pensato che però sappiamo che la chiave del cassetto non si trova, e che è molto più facile decidere o avere l’impulso di aprire un cassetto se non è chiuso a chiave. L’assenza di una chiave rende il cassetto meno definitivo e più accessibile, a noi e agli altri.  Seduta davanti alla mia finestra aperta sul piccolo balcone fiorito, le unghie dello stesso rosso di una verbena generosa, ho pensato alle lettere che ho scritto e non ho spedito, e a quelle che avrei voluto scrivere e non ho scritto. Ho pensato anche a queste lettere che scrivo a lei. “Le lettere fanno schifo”, pensa Johnny, perché diventano solo quello che l’altro vuole leggere, e poi perché non c’è il corpo nelle lettere, non c’è un tono di voce, un’incrinatura, un respiro, un gesto che dia compimento al senso che vogliamo dare. Non so. Forse è così. Ma in fondo, vorrei dire a Johnny, tutta la tua passione e il tuo amore e i tuoi pensieri per Helen sono nati da una lettera letta per caso, che non era per lei e non era per te e non era per nessuno di tutti quelli che speravano fosse per loro. Era una lettera di tutti, come una cortigiana, e ciascuno desiderava sperava voleva che fosse solo per sé. È che a tutti noi piace ricevere lettere d’amore pensando di esserne il destinatario, colui o colei per cui quelle parole, proprio quelle e non altre, sono state scelte, scritte, spedite. Colui o colei che in quel momento, non quando riceviamo, ma prima, prima ancora di saperlo, quando il mittente scrive pensa invia, è -siamo, ci illudiamo di essere, speriamo di essere, le declinazioni sono molte – il centro dei suoi pensieri. Una volta, in un distacco molto doloroso, mi sono fatta scrivere sul corpo una lettera molto meditata, ogni parola pensata, scelta, cancellata, ripresa, decisa, e poi mi sono fatta fotografare per inviare le foto al destinatario della lettera. Ma le foto erano di una qualità scadente, e mi sembravano sciupare colpevolmente le cose che volevo dire, e come volevo dirle. Il destinatario non le ha mai ricevute, anche se ha saputo della loro esistenza. Non mi ha mai chiesto di vederle, nè io ho mai deciso di mandargliele, nemmeno dopo il ritorno, nemmeno dopo un nuovo, ancor più doloroso, distacco. Ci ho pensato, mentre lo smalto si asciugava e lo guardavo e mi compiacevo della sua brillantezza incredibilmente senza sbavature, e mi è venuta voglia di cercare i file, che stanno in qualche cassetto del mio computer, senza nessuna chiave. Se li avessi chiusi con una password o qualche altra diavoleria tecnologica, dopo tutto questo tempo, probabilmente la chiave l’avrei persa. Invece sono lì, come la cartolina di Helen, accessibili, anche se ciò non significa necessariamente che qualcuno vi accederà. Per distrarmi, ho gironzolato su youtube cercando Jais e Cerino e ho scoperto che qualcuno ha caricato un frammento del concerto di ferragosto, di cui metto l’indirizzo, se per caso lei volesse ascoltarlo. http://youtu.be/iVPkuCa0qxI

Che strano: Shine per Emma Kirkby e Schine la scrittrice, Cerino che si accende di passione e Jais che significa giaietto, una pirite di un colore nero molto brillante che si usa anche per fare bottoni, o “abbellimenti” come dice il dizionario. Il tutto in una giornata azzurra e luminosa, dopo una notte chiara d’estate, una musica piena di vita e una luna accessibile come una cassetto senza chiave. Sto migliorando, le pare? Sono partita da un ennesimo straziato lamento e sono arrivata allo smalto color forse cremisi delle mie unghie, vedere le quali oggi mi dà grande soddisfazione, quasi avessi scoperto le mie origini remote. Che bella l’estate. Stasera uscirò, andrò a un cinema all’aperto, con dei sandali molto aperti, molto, in modo che si vedano con chiarezza tutte le mie estremità laccate di rosso. Imbucherò domani. Sia paziente, la prego, e mi creda: questa lettera l’ho scritta per lei.

M.n.m.

ps. chissà se è un caso che questa Helen si chiami – quasi – come Helene Hanff di 84 Charing Cross Road, lettere, libri, libreria. Ci ho pensato adesso, appena prima di salvare. E anche – quasi – come Ellen, nell’Età dell’innocenza. No, questo non è di certo un caso, dato che Edith Wharton viene citata continuamente nel libro. Vede? Anche questo è un segno di miglioramento. Un gioco con i libri, come tanti ne ho fatti con Messer Papillon: era tanto che non succedeva. Doucement.

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Cartoline dalle vacanze, da Sud e da Nord, in salsa di ritorno, con una luce pallida senza rimorsi.

3 Agosto 2013

Dear the-Reader,

è finito luglio ed è arrivato un gran caldo, il caldo che sale dalle strade e ti investe come un soffio quasi liquido, bollente e denso. Sono stata a Berlino settimana scorsa, e il giorno in cui sono arrivata c’erano 36 gradi. Scendendo dall’aereo ho pensato di essere sbarcata in un cuore mediterraneo, e mi è venuto in mente che poche settimane prima, all’inizio di luglio, arrivando a Brindisi avevo immaginato di essere in una qualche città nordica, aria fresca e frizzante, golf di cotone e scarpe chiuse. E così, a Berlino ho pensato al Salento e ora a Milano penso a Berlino che mi faceva pensare al Salento e al sud che tanto mi piace.
Non ho intenzione di tediarla con le mie vacanze, sole mare sensuali fioriture mediterranee e cieli scintillanti, cupola del Reichstag Kreutzeberg Prezlauer alberi frondosi e cieli mossi, piovosi ventosi, a volte scintillanti. Solo, due cartoline, una da Sud e una da Nord. La prima da Maglie, paese nell’entroterra salentino, primo pomeriggio, domenica 30 giugno. Tutto chiuso, perfino la stazione, dove di domenica non si ferma nessun treno. Dovevo aspettare più di un’ora l’autobus che, dopo un autobus, un aereo, due autobus, finalmente mi avrebbe portato a destinazione. Un silenzio come in una piazza metafisica. Luce sfavillante sulle pietre chiare, un color crema caldo, le persiane tutte accostate. Inutilmente ho percorso un ampio quadrato cercando un caffè dove poter stare. Solo il rumore delle ruote della mia valigia sulla strada, e gli occupanti di qualche rara automobile che mi guardavano come se fossi un aliena appena sbarcata da un’astronave. Tornata al via, come in un gioco dell’oca, senza aver incontrato nessuno, mi sono seduta su un gradino con il mio libro aspettando di vedere spuntare da una curva l’autobus che non potevo permettermi di perdere, dato che il seguente sarebbe stato dopo più di quattro ore. D’un tratto è arrivato un pulmino di quelli con una decina di posti, vuoto, una specie di scuolabus delle vacanze, e si è fermato davanti me. Il guidatore è sceso e mi ha chiesto se aspettavo l’autobus per il luogo dove dovevo andare. Ho detto di sì. Lui mi ha guardato, mi ha sorriso e mi ha detto “Sono io, l’autobus”. Gli ho chiesto se sapeva dove si potesse prendere un caffè, dato che mancava più di mezz’ora. Ci siamo andati insieme, nella direzione opposta a quella che avevo preso io, e durante la strada mi ha raccontato di quei luoghi, dell’inverno, dell’estate, della sua emigrazione e del suo ritorno. Nel bar ha salutato tutti, e io sono stata accolta come una riconosciuta da sempre. Il barista, giovane, bello, con uno sguardo franco, mi ha chiesto se era la prima volta che andavo da quelle parti. Sì. Mi ha guardato e mi detto: “Vedrà che tornerà. Questa è una terra dove si torna”. Ci siamo incamminati verso la la stazione, e poi, dal finestrino del mio quasi taxi privato, ho visto una campagna bellissima, ulivi come querce, mare sfogorante, torri d’avvistamento piantate a picco sulle scogliere; di fronte, azzurra, l’Albania. L’autista mi ha fatto vedere ogni cosa, mi ha indicato nomi di luoghi e di palazzi, mi ha mostrato insenature raccontandomi di ognuna  perché si chiama così. Quando sono scesa, ho pensato che era un inizio pieno di bellezza.
La seconda da Berlino, Savigny Platz, giovedì 1 agosto. Una notte tiepida, quasi calda. Un uomo e una donna che si baciano di fronte a una libreria sotto gli archi che sorreggono i treni della S-Bahn. I tavolini vuoti dei ristoranti ormai chiusi, le sedie legate tra loro come biciclette, silenzio. L’uomo si avvicina a una bicicletta, e armeggia per slegarla. La donna si allontana a piedi, costeggiando gli archi sotto i binari. Si volta e lo saluta con la mano. Lui è fermo, in piedi, risponde al saluto e se ne va. Lei cammina, lentamente, il capo chino. Pensieri. Nella vetrina della libreria, appese a un filo d’acciaio ci sono delle cartoline d’autore. Una raffigura un dipinto, due sedie da regista di stoffa bianca su una spiaggia, cielo azzurro come certi cieli del Sud. Su una delle due sedie uno scialle o una coperta, non so, anch’essa bianca, appoggiata su un lato della spalliera. Luce. La donna svolta sotto uno degli archi e sparisce. La piazza è deserta. La notte è dolce. Le sedie nella cartolina sono vicine, ma non accostate. Sono viste da dietro. Una è in asse con lo sguardo di chi guarda, lo schienale dritto davanti a noi, l’altra  è leggermente sghemba. Come fossero di due persone che sanno stare in silenzio davanti alla bellezza, che stanno lì sedute e guardano il cielo senza bisogno di dire questo e quello. Che vanno da qualche parte, forse insieme, forse no, e poi lì torneranno, lo scialle, l’azzurro, una pace, come è quella di un ritorno a lungo atteso. Camminando verso la pensione che mi ospitava, nella mia ultima notte berlinese, ho pensato a lungo a quelle due sedie vuote, lo scialle morbido, bianco. E a quella donna a capo chino che se ne andava lungo il muro sotto i binari, e non sembrava felice. I tigli erano ancora fioriti, ma non si sentiva alcun profumo, forse la stagione è troppo avanzata, e la fioritura ha perso la sua giovinezza.
Il giorno dopo, prima di partire, sono tornata per comprare la cartolina, ma una commessa un po’ sgradevole mi ha detto che le avevano finite, e che quella in vetrina non si poteva vendere. Ho cercato di convincerla, prima con gentilezza dicendo che partivo, poi un po’ più indispettita, ma non c’è stato niente da fare. Stupidamente, non ho pensato di guardare almeno di chi fosse il quadro, per poterne trovare un’immagine da qualche parte. E così rimarrà appeso nella mia memoria come al filo d’acciaio, una suggestione bianca e azzurra in una notte berlinese di mezza estate. In un libro intenso di Elisabeth Strout che ho appena finito, “I ragazzi Burgess”, nell’ultima pagina Bob, uno dei tre fratelli protagonisti del romanzo, – “Pensò a Margareth, e, con stupore il suo cuore comprese il proprio destino. Per qualche attimo avvertì dei brividi di preoccupazione (…)Era fuggito da tutto questo (…) Eppure, ciò che gli stava davanti non gli parve strano, e la vita era proprio così, pensò.” Ci ho pensato quella sera, camminando da sola sotto gli alberi. Ho riletto l’ultima pagina, al ritorno, e continuo a pensare a queste parole, e alla “prima pallida luce” dell’ultima riga che “si insinuò senza rimorsi sotto gli scuri”. Di nuovo un’alba in un finale. Come nella famiglia Karnowski. Ma non livida. “Senza rimorsi”. Come a dire che è nel ciclo naturale delle cose, l’alba dopo una notte senza luna e senza stelle, un ritorno fino ad allora non considerato, per nulla strano, la vita che prende forme che la testa non ha pensato, e lo stupore, lo stupore davanti a noi stessi e alla nostra anima che sa svelarci il nostro destino, se sappiamo accoglierlo. Se non è troppo tardi. Se non è come per Susan, l’unica femmina dei fratelli Burgess, che pensando al fallimento del proprio matrimonio, al dolore per la fuga del suo “strano” figlio, si rende conto improvisamente di non aver mai chiesto scusa. “Ed era troppo tardi. Nessuno vuole mai credere che sia troppo tardi, ma lo sta sempre diventando. E poi lo è. “ Ma Elisabeth Strout è molto indulgente con le sue creature, madri, figli, mogli, mariti, fratelli, famiglie sgangherate come tutte le famiglie che in qualche modo riescono a ritrovarsi, e a tutti offre sempre un’altra chance. Come Jegor Karnowski, tornerà il figlio di Susan, con “una robustezza nuova” nell’anima e nel corpo, e uscirà dai suoi cupi silenzi, e parlerà, e racconterà, e dirà che vuole restare, anche se tutto gli sembra strano. ” È tutto uguale. Però è anche diverso”, gli risponde suo zio Bob. E Susan lo sa, lo sanno tutti e tre, e lo sa anche Jim, lo spregiudicato Jim, che i fratelli hanno messo su un autobus, quasi a forza, perché ritorni a ciò che ha distrutto, per chiedere scusa e provare a ricostruire. Quella sera a Berlino ho pensato che è proprio così: che è tutto strano, in un ritorno, qualsiasi ritorno, e che è tutto uguale però è anche tutto diverso, perchè siamo diversi noi, dopo essere stati altrove, qualsiasi altrove sia stato.

Adesso è molto tardi, sono passate le due del mattino. Da lei probabilmente sarà tardo pomeriggio o sera appena iniziata. Chissà se va in vacanza da qualche parte. Chissà quali alberi e quali città ci sono nel suo orizzonte. Certe volte mi dispiace non sapere nulla di Lei, caro the-Reader. Non saperla collocare in un luogo che non siano solo la cartina che si accende, queste pagine e i miei pensieri. Qualcuno mi ha detto che forse lei non esiste, che forse è una specie di scherzo informatico, non ho capito bene, una sorta di menzogna tecnologica. Spero di no. Mi piace pensarla che legge un libro, queste mie parole, un giornale o qualsiasi cosa in un parco, in queste sere d’estate, sotto un albero o vicino all’acqua o comunque in un luogo quieto. Sarà che d’estate ho bisogno di quiete, e di silenzio, e mi piace trovare luoghi che me ne offrano la suggestione. Come nel quartiere di Prezlauer, a Berlino, dove c’è un piccolo cimitero ebraico aperto nel 1827 che nonostante gli sfregi subiti conserva una grande bellezza. Alberi altissimi lo avvolgono come una sorta di cupola e i raggi del sole si infilano tra le foglie formando disegni d’ombra sulle pietre grigie. Ecco, di tutto ciò che ho visto, questo è il luogo che più mi rimarrà impresso. In mezzo a un quartiere molto vivo, un muro di mattoni rossi lo protegge dalla strada e dagli occhi di chi non lo cerca. A guardare bene sul muro ci sono delle stelle di David, fatte degli stessi mattoni rossi posizionati in direzioni diverse dagli altri.  Ho chiesto indicazioni a diverse persone, ma nessuno sapeva che esistesse. È strano, no? A volte stiamo in un luogo e non abbiamo la minima idea di cosa ci sia dietro a un muro lungo il quale camminiamo ogni giorno. Chissà se lei conosce il cimitero cosiddetto degli Inglesi, a Roma: un luogo meraviglioso, molto diverso da questo  di cui le stavo raccontando, molto più sontuoso, marmi, alberi di tante varietà, una luce più diffusa. Quando l’ho visto la prima volta, e non sapevo nemmeno che esistesse, mi ha colpito profondamente, come ora questo di Berlino, ancora più suggestivo, forse perché nel guardare non possiamo prescindere da ciò che è stato. Perché le parlo di cimiteri, penserà lei… Non so, mi è venuto in mente mentre scrivevo di quiete, e di silenzio. Ma non è un’immagine cupa, tutt’altro, la prego di credermi. Certo, forse non è proprio l’ideale per chiudere una lettera. E allora chiudo con dei suonatori di strada, sulla S-Bahn di Berlino, tre uomini Romanì, che suonavano e cantavano spirituals americani. Li ho incontrati il penultimo giorno: erano allegri, avevano belle voci, suonavano un violino, una fisarmonica e una melodica. Gli ho dato una moneta e li ho ascoltati con gioia cantare in inglese su un treno di Berlino Il giorno dopo, sulla stessa metropolitana, con la valigia per partire, li ho rivisti. Quando il violinista si è avvicinato con il suo bicchiere non gli ho dato nulla. Lui è passato oltre, poi si è fermato ed è tornato indietro. Mi ha guardato e mi ha detto Yesterday… Io ho risposto Yes. Lui mi ha sorriso, un sorriso pieno e divertito e io ho fatto lo stesso. Scendendo, con il violino, ha accennato qualche nota di Yesterday dei Beatles. Io mi sono voltata, e l’ho salutato dal finestrino. Lui ha fatto lo stesso. È stato bello. Riconoscere ed essere riconosciuti, in una città straniera, in una lingua che non è la tua. Sì, è stato bello, come quando il barista di Maglie mi ha detto “questa è una terra in cui si torna”, e come quando, a Berlino, Eistein Cafè, ho rivisto un’amica che lì si è trasferita, ed è stato come se ci fossimo viste il giorno prima, e il giorno prima ancora, un abbraccio intenso, una gran gioia.
Dear the-Reader, io non la conosco, ma ogni volta che la cartina delle visite al blog si illumina degli Stati Uniti mi sembra di riconoscerla. È bello. Accennerei due note di Yesterday, ora, per salutarla.
Yesterday… all my trouble seemed so far away… Ha sentito? Ha visto? Ho fatto anche un cenno con la mano…

Mnm

ps. Sulla copertina dell’edizione italiana – Fazi editore – del libro della Strout c’è la riproduzione di un quadro, cinque persone sedute su sedie di legno, in un paesaggio di terra e montagne brulle, in silenzio. Le ombre sono lunghe, e forse è il tramonto. Quattro, due uomini e due donne, sono in fila, seguendo la linea prospettica, di profilo, e guardano dritto davanti a sè. Il quinto sta arretrato rispetto a loro, come in seconda fila sul lato sinistro dell’immagine, ma più vicino a noi di tutti gli altri. Non guarda dritto quel qualcosa che noi non vediamo: è leggermente piegato in avanti e tiene in mano un libro, e legge. Sembra assorto, anche un po’ stupito, come quando riconosciamo qualcosa di noi in una pagina scritta. Yesterday…

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Del giardino delle rose, come promesso, e di una catena di libri che con le rose non c’entrano nulla. E dell’estate improvvisa, dopo l’assenza di primavera. (E di un gelsomino che tarda a fiorire) Insomma, di un gran minestrone.

Dear the-Reader,

è passato molto tempo dall’ultima volta che le ho scritto, e ho molte cose da raccontarle. La primavera non c’è stata, quest’anno. Ha piovuto e piovuto e piovuto, e freddo, e grigio.  Per settimane, ovunque si andasse, tutti parlavano solo del tempo, e non solo i metereopatici come me. Tutti, entrando in qualsiasi luogo, commentavano il freddo o la pioggia, che sembravano perfino aver fatto dimenticare il circo deprimente che questo paese è diventato. Gli alberi hanno cambiato aspetto di colpo, un giorno all’inizio di maggio limpido e caldo, in cui tutti abbiamo sperato che finalmente la stagione stesse mutando. In un solo giorno tutto è diventato verde, e rigoglioso. Ma poi acqua e acqua e chiome fradicie e cielo buio. Ancora domenica scorsa sono fuggita da un mercatino di libri perché il cielo è diventato nero e minaccioso, basso sulla città fredda che è diventata livida come per uno spavento. Il gelsomino sul mio balcone non era ancora fiorito, e lo guardavo con trepidazione, perché in giro c’erano fiori bianchi arrampicati ovunque, sui cancelli o sui balconi e mi chiedevo quando sarebbe stato tempo di profumo anche per me.
Poi, questa settimana, è tumultuosamente esplosa l’estate, e la città sa inconsuetamente di tiglio, in modo languido e inebriante, anche laddove i tigli non si vedono. Sarà tutta l’acqua che è venuta, e poi il caldo improvviso, e le piante che di colpo hanno trovato vigore e profumano l’aria per dire ecco, ci siamo. Il mio gelsomino in una notte ha cambiato aspetto, si è riempito di boccioli affusolati il primo dei quali si è aperto ieri come ormai temevo non accadesse.
Sono stata a Roma, al giardino delle rose, due settimane fa. Dal treno fiumi gonfi, tutti, il Po, l’Arno, il Tevere, canali e canaletti, verdi, melmosi, con gli alberi piegati sull’acqua per le foglie bagnate. Sono andata al roseto (si chiama roseto comunale, ma giardino delle rose mi piace di più, e questo rimane il suo nome nella mia toponomastica dell’anima e dei sensi) in un pomeriggio instabile, ventoso, sole a tratti, anche caldo, poi nuvoloni scuri e veloci, aria fredda quasi come a Milano, ma una luce piena di ombre e di contrasti da rimanere seduti lì e guardare il cielo ancora più che le rose, belle, certo, ma affaticate di pioggia, i petali a terra, pozze d’acqua tra le piante. Ho camminato, ho annusato, ho guardato. Poi mi sono seduta su una panchina, nel silenzio, nella meraviglia di quel luogo, le rose, i viali a forma di Menorah, i cipressi scuri e i grandi pini che costeggiano il giardino, le rovine rossastre di fronte, la città che dilaga. Un luogo che sembra fatto apposta per farti sentire dentro un mondo più grande di te, quasi un universo, misterioso per incanto da un lato e per una sorta di vertigine dall’altro. È che a volte ce lo dimentichiamo, di stare in qualcosa più grande di noi, tutti presi in una piccola vita che si gonfia ai nostri occhi come se null’altro esistesse. E seduta lì, in mezzo alle rose un po’ sofferenti per un clima che sembrava più adatto a marzo che alla fine di maggio, ho a lungo pensato a due libri da poco tradotti – finalmente – in italiano: la famiglia Karnowski, di Israel Singer, pubblicato da Adelphi, e Un anno a Treblinka, di Yankel Wiernik, uscito per i tipi di Mattioli1885. Due libri che hanno aspettato più di cinquant’anni per essere tradotti e pubblicati in Italia, uno di un grandissimo scrittore, l’altro di un anonimo falegname, entrambi polacchi, uno emigrato negli Stati Uniti nel ’34 e morto nel ’44, prima che fosse manifesta l’enormità dell’ orrore che l’Europa stava vivendo, l’altro internato a Treblinka e tra i pochissimi sopravvissuti di quel campo di morte, per sempre testimone nel corpo, nell’anima e nelle parole dell’orrore che l’Europa aveva vissuto. Due libri uniti da molti fili, e non solo quelli più evidenti, storici, geografici, di appartenenza e di lingua. La stessa tragedia, anticipata in modo quasi preveggente da Singer e minuziosamente raccontata nei fatti più atroci del suo dispiegarsi da Wiernik, lo stesso abisso in cui gli esseri umani sanno precipitarsi, la stessa disperazione nell’ imminenza e nella presenza del male, lo stesso guizzo che a volte, malgrado tutto, gli esseri umani sanno trovare. Un romanzo complesso e articolato che racconta di tre generazioni e di tre paesi, moltissimi personaggi e ambienti, uomini donne bambini adolescenti, commercianti rabbini medici intellettuali funzionari oppositori, e un racconto reale di poche pagine, scarno, un solo luogo, il campo, uomini donne bambini, vittime e carnefici, ma entrambi terribili, implacabili, e, ho pensato seduta tra le rose su uno sfondo da lasciare senza parole,  entrambi carichi di sguardo, di domande senza pace. Perché, mi sono chiesta un po’ smarrita, penso a due libri così dolorosi proprio ora, in questo luogo di meraviglia nel quale ho tanto desiderato tornare?
Ma il giardino delle rose, oltre che saturo di bellezza, è un luogo saturo di Storia e di storie, e di presenze, e a un tratto non mi è parso più così strano pensare a Singer e a Wiernik guardando i resti del Palatino, i campanili cristiani e la cupola della Sinagoga. Anzi, mi è improvvisamente sembrato che fosse quasi naturale pensarci, stando lì, rose e rose di tutti i colori, scelte, piantate, curate su una terra digradante che un tempo accoglieva i corpi degli ebrei di Roma e li custodiva nel silenzio degli orti e del cimitero ebraico. Un luogo di pace, e al tempo stesso un luogo di memoria che fiorisce in forma di rosa.
Ho pensato a Wiernik, che, straziato dai ricordi di ciò che è stato e che non era nemmeno immaginabile, e perseguitato senza fine dalla consapevolezza di aver contribuito con il proprio lavoro di schiavo alla morte dei suoi fratelli, si sente “un nomade” che sembra “portare sulle spalle il peso di molti secoli”. Cerca “quiete e solitudine”, ed è solo il canto degli uccelli che accompagna l’immensa fatica di dar voce al suo racconto. “Amati uccelli”, dice Wiernik, e questa frase struggente è rimasta impressa nella mia memoria, e l’ho pensata, seduta tra le rose, e la penso ora, le finestre spalancate, profumo di tiglio e sì, proprio ora, proprio qui, il raro canto di un uccello che non so distinguere.
“Papà, perché tutte queste sofferenze?” chiede Jeannette, un personaggio secondario nel romanzo di Singer, al padre, il vecchio Reb Efraim,venerabile e molto saggio, sempre immerso nello studio e nella scrittura nonostante “sappia e veda tutto ciò che succede nel mondo”.
(…) Reb Efraim sorride, un sorriso sdentato nella barba muschiosa.
“È una vecchia domanda, figlia mia, vecchia come la sofferenza stessa. Con le nostre menti limitate non riusciamo a capirlo, ma tutto questo deve avere un senso, come ogni cosa che esiste, altrimenti non esisterebbe.”
Le parole del padre non alleviano la pena di Jeannette, che anzi diventa più pesante, più amara.
“Perché Dio ci tormenta – insiste – Perché gli piace tormentare, quando potrebbe fare il bene, se solo volesse?”
Sì. Nel giardino delle rose di Roma, in una giornata di maggio inconsuetamente instabile, ho pensato a Jeannette che non riesce ad accettare le spiegazioni di suo padre e si rifugia nella lettura di romanzi francesi, e a Wiernik che, sfiancato, lontano da ogni consesso umano, vuole solo scrivere il suo terribile racconto e trova un po’ di pace unicamente nel canto degli uccelli. La lettura, la scrittura, i suoni quieti della natura, le rose e il gelsomino come antidoti all’incomprensibile dolore dell’esistenza.
Ma Wiernik, nonostante tutto, ha partecipato all’organizzazione della rivolta del campo di Treblinka, riuscendo – uno dei pochissimi – a fuggire e a salvarsi. Dopo la guerra, dopo aver scritto il suo racconto, emigrato in Israele, ha dedicato la propria vita a perpetrare la memoria di ciò che è stato. E Jegor, il più giovane e umiliato e disperato tra i personaggi di Singer, uccide il suo aguzzino e torna come il figliol prodigo alla casa del padre che aveva rinnegato insieme alle proprie origini. Il romanzo di Singer finisce con la luce livida di un sole nascente che trafigge la fitta nebbia e illumina le finestre dietro le quali Georg Karnowski cerca di mantenere in vita suo figlio Jegor eseguendo da medico di guerra quale è stato il più indifferibile dei tanti pur indifferibili interventi che ha operato. Non sappiamo se Jegor si salverà, ma sappiamo che è tornato: “Sono io, papà” dice a suo padre sul pianerottolo di casa, come a dire che per tornare a essere se stesso ha dovuto fare e farsi del male. È l’umiliazione profonda, intima, della sostanza di sè, che ha minato fin da bambino il piccolo Jegor. E Singer racconta l’umiliazione e le diverse reazioni all’umiliazione in molti suoi personaggi, nelle storie e nella Storia. È la sostanza di sè, che Jegor deve ritrovare, più ancora che la salvezza fisica. Ed è la stessa cosa che sembra dirci Wiernik, nel suo straziante Capitolo 1, una sorta di lettera al lettore nella quale egli ci precipita nell’abisso di sè prima di precipitarci nei dettagli terrificanti dell’abisso della Storia, che poi ci racconterà senza quasi sentimenti, perché nulla dice più dei fatti. L’alba – livida, perchè sempre livida è la ricerca di sè – di Singer e il quieto canto degli uccelli di Wiernik. La casa del padre e il bosco pieno di partigiani polacchi dove Wiernik riesce a fuggire. Nel giardino delle rose, quel giorno, ho pensato a lungo, e ho dovuto aspettare, per scrivere. Guardo il gelsomino sul mio balcone. Domani o dopo sarà fiorito. Il cielo si è ingrigito, di nuovo, e c’è un caldo umido senza sole che fa pensare a una serra. Può darsi che piova, stasera.
Dear the-Reader, mi perdoni. È un periodo così, e Musette sembra aver perso gioia e senso dell’umorismo. Ma sono contenta, perché questi due libri mi giravano in testa da quando li ho letti, e al Roseto ho finalmente sentito che era tempo di raccontarne, nel modo un po’ bislacco e poco sistematico che è proprio di Musette, che ha un cervello analogico, più che logico, e mette insieme in un gran minestrone rose gelsomini un grande scrittore un falegname e anche una luna a tratti velata che a Roma ho visto dalla finestra, perché non riuscivo a dormire. Gliela mando, insieme a una suggestione di rose, un roseto bianco, alcuni boccioli rovinati dalla pioggia, molti petali a terra. In un altro momento avrei scelto rose carnose, al massimo del loro fulgore, di una tonalità intensa, magari un certo punto di rosso, o arancio, con lo sfondo della città e della sua bellezza. Ma oggi no: il bianco, i petali caduti, i fiori rovinati prima di sbocciare, il graticcio che sorreggeva la pianta di rose, il cielo ventoso, nuvole fredde, colori d’inverno, e luce lunga, come d’estate, mi sembrano adatti al racconto di Wiernik e anche a quello di Singer. Ho raccolto da terra due petali, quel giorno, e li ho messi in un libro che avevo in borsa. Adesso li cercherò e li metterò nei libri di cui le ho parlato. E magari, chissà, quando saranno fioriti, metterò a seccare nei libri anche due fiori di gelsomino. (Lo so, ci mancavano solo i fiori secchi. E dire che gli erbari non mi sono mai piaciuti. La prossima volta cercherò di cambiare tono, davvero)
Ogni tanto mi chiedo chi glielo fa fare di leggere quello che scrivo. Ma continui, la prego: non può sapere quanto questo mi dia gioia.

Con affetto

Mnm

ps. mentre stavo per chiudere mi è venuto in mente un bellissimo racconto di Englander ” Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank” Un racconto stupefacente, che potrebbe essere il terzo anello della catena. Nonostante una vena ironica quasi scanzonata, di nuovo una domanda terribile, come centro. E due risposte alla fine. Un sì e un no. Quel no risuona nelle mie orecchie e mi ha talmente turbato che l’avevo rimosso. È strano che non mi sia venuto in mente prima, nè al Roseto nè oggi mentre scrivevo. Ma forse non è strano affatto: proprio perché mi ha così profondamente colpito ho cercato di proteggermi dalla sua portata deflagrante. (per fortuna, dirà Lei: un altro anello non si poteva sopportare)

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