Di qualcosa di nuovo, anzi d’antico. E di una finestra affacciata su un orto. E di scuse tra le righe.

Dear The Reader,
so che Lei è passato di qui molte volte, anche recentemente, e mi vergogno un po’ del silenzio che ha trovato. Sono mesi che voglio scriverle, e sono mesi che rimando. Non mi nasconderò dietro bugie abusate, non ho tempo, ho molto da fare, non ho tempo, cose improvvise e senza scampo, non ho tempo, si è rotto il computer, non ho tempo, il rubinetto le infiltrazioni la lavastoviglie la caldaia, non ho tempo, la tragedia dietro l’angolo, non ho tempo, sono partita sono tornata, non ho tempo, ho scritto in brutta non ho copiato, il lavoro, aiuto il lavoro, la famiglia, la grande famiglia, AIUTO, LA GRANDE FAMIGLIA. No. sarebbero solo bugie. Non petite e per questo ancora più irritanti, perché sbrodolato a proprio uso e consumo. No. Se uno vuole scrivere, scrive, come ci insegnano Dickens, Stevenson, Mark Twain, Simenon e molti altri prolifici scrittori, o musicisti. Sguardo sul foglio, a lume di candela, scrivere intingere scrivere asciugare, ore e ore, senza scuse. Qualsiasi cosa succeda, la vita la morte le tasse Pasqua Ferragosto Natale. La verità è che sono diventata pigra, o meglio più pigra. Penso spessissimo di scriverle, leggo, ascolto, osservo, annuso, tocco, e penso che sarebbe bello raccontarlo a lei. E lo racconto, lì, in quel momento, e le parlo, le leggo o le mostro, ma poi basta, ai pensieri non segue nessuna azione, e più penso che voglio scriverle, più mi risulta difficile prendere una penna in mano. Mi ero quasi rassegnata a decidere di decidere di non scriverle più, di lasciare due righe in modo che lei smettesse di passare, perché la so quella sensazione di delusione del desiderio che sembra un po’ come mangiare qualcosa di appena un po’ guasto, appena un po’, non del tutto, non un boccone che si sputa, ma si mangia lo stesso, anche se non è buono, eppure lo si era comprato conservato cucinato, e si mette in bocca e si aspetta quel sapore, ma c’è un retrogusto, un fondo ineliminabile, e si aggiunge il pane per coprirlo, ma rimane lì, e non se ne va. Lo so com’è, e oggi, oggi che è una giornata di luce inaudita e vento freddo di tramontana, e Roma è due, sporca – sporchissima – a terra di foglie e di carta straccia, ma cristallina e azzurra se si guarda il cielo, lucente e sporca, sporca e lucente, e rumorosa di vento come una città di mare, oggi non so perché – o forse lo so, le antenne ondeggiavano nel cielo, dando alle case l’aspetto di navi in beccheggio, una specie di Fitzcarraldo metropolitano, con sfondo di cielo e rumore di vento – oggi, dicevo, ho pensato che non volevo essere per Lei quel retrogusto. E così eccomi qua, con molti treni in questi mesi, alle spalle una primavera radiosa, un’estate che non c’è stata, nemmeno un cinema all’aperto, settembre e ottobre di caldo tardivo e sandali aperti, e poi pioggia, pioggia, pioggia, le foglie cadute ancora verdi, e i giorni prima di Natale inconsuetamente caldi, come di aprile avanzato, e ora vento di tramontana e gelo vero, e luce di un’altro pianeta.
Il giorno di Natale in treno. A Firenze un cielo spesso e scurissimo di nuvole a strati, e una luce insidiosa da temporale che cercava un passaggio fino ai finestrini del treno, quasi viola, quasi oscena nel modo di tagliare gli oggetti e di denudarli all’improvviso, davanti a tutti. Ho pensato a una foto che ho visto alla mostra di Cartier Bresson, qualche tempo fa. Una foto scattata a Siviglia, nel ’33. Un vicolo, angoli netti e spigoli, ombre come affilate come coltelli. Sulla destra, appena visibile, una figura, forse un ragazzino, completamente in ombra, se non per una macchia di luce sul capo e su una piccola parte della maglietta bianca. Sta appoggiato al muro, una forma scura senza volto, il capo leggermente in avanti. Forse aspetta. Forse osserva. Non c’è nulla da osservare, se non il vicolo vuoto, la luce e le ombre geometriche come quelle che vedo ora dalla mia finestra, ma tutto si riempie del suo sguardo, che non vediamo ma sentiamo, che spinge il nostro di sguardo, e lo fa rimbalzare sulle superfici assolate e, insieme, immergere nelle ombre. Mi sono sentita così, in quel treno semivuoto, un grumo di occhi e di pensieri che guarda fuori, il mondo che si palesa mio malgrado in un raggio saturo che disegna i tetti, le pensiline i marciapiedi, gli orologi, i pali e i binari a sbalzo su un fondo di nuvole stratificate, nere. Ciascun particolare intero, tutti i particolari un intero. Due giorni prima, stesso tragitto in senso inverso, la prima nebbia della stagione, ombre rarefatte, alberi come sirene, nessuna linea precisa, solo curve sfumate e colori vaghi, uniformi. Una confusione dei sensi e dell’anima. E poi, inatteso, un disvelamento. In questi mesi, mio carissimo The Reader, ho fatto molti viaggi. Ma questi ultimi due condensano tutti i movimenti, e raccontano sinteticamente, come la foto di Cartier Bresson, un cambio di sguardo, una luce satura improvvisa, un palesarsi di qualcosa su uno sfondo gonfio e scuro, qualcosa di nitido, cristallino, qualcosa di ineludibile che d’ora innanzi sarà nel mio sguardo. Mesi ci ho messo per arrivarci. Ho aspettato. Aspettato, aspettato. Ma ora è così chiaro. Nel mio sguardo e, sono certa, nello sguardo di chi mi guarda. È qualcosa di nuovo, anzi d’antico. È come un alba e insieme un tramonto. È bello, e stupefacente.
Dear The Reader, è dicembre, l’anno finisce. È tempo di auguri. Davanti alla mia finestra uno dei palazzi che era al sole, è ora in ombra, tranne il cornicione, le antenne sul tetto e l’angolo di sinistra. Guardo l’ombra avanzare sull’ultimo lembo di muro, verso l’ultima finestra assolata, in alto, appena sotto il tetto. Le mando l’immagine di questa finestra. Buon anno. Che ci sia una finestra illuminata, anche se sotto la città è sporca e corrotta. “La” finestra su cui posare lo sguardo, o la mente quando non si possa essere nella posizione per vederla. Una finestra assolata anche in dicembre, nei giorni più corti dell’anno.

Buon anno.

Sua
Musette

ps. davanti al palazzo della finestra, che è posto perpendicolarmente rispetto a dove io mi trovo, al di là di una strada stretta, c’è un giardino, e nella parte terminale di questo giardino, verso la strada davanti alla mia finestra, un orto. Un magnifico, curatissimo orto in città, protetto verso la strada da un muro di mattoni che lo nasconde completamente a chi passa. C’è un uomo che se ne occupa. L’ho visto molte volte. Perfino oggi, che è così inconsuetamente freddo per Roma. Indossa un maglione blu pesante e ha capelli bianchi. Sento le sue cesoie da qui, con la finestra chiusa. Lo vedo piegarsi su un cespuglio e tagliarne un ramo, che forse il vento ha spezzato. Non c’è un pezzo di carta o di plastica in quell’orto. Eppure lì davanti, sulla strada, è tutto sporco, foglie, giornali, sacchetti. Mi piace guardare quell’uomo che cura il suo giardino. Mi piace la sua dedizione, la sua costanza, la sua pazienza, tutti i giorni, anche se fa così freddo. Lo guardo e mi viene un po’ di malinconia. Sì, tutti i giorni, anche se fa così freddo.

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Una donna che viaggia leggendo e che legge viaggiando.
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4 risposte a Di qualcosa di nuovo, anzi d’antico. E di una finestra affacciata su un orto. E di scuse tra le righe.

  1. robertomeister ha detto:

    Un saluto e un augurio… passando.

  2. stephi ha detto:

    mi garba saperti con quel “diamante nuovo” nello sguardo! una vista sapiente di quel che si vuole! che augurio migliore ci possa essere per l’anno virgulto?
    affettuosamente pensando verso di te
    S.

  3. Stephi…. Che bello! Un augurio a te, e abbracci e pensieri.

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