Olive, buchi e tulipani

Caro Messer Papillon,

è inverno. La pianura è ancora piene di neve e sono in treno. E’ tanto che non le scrivo. Ho aspettato per un po’ che Lei leggesse le ultime mie righe e mi scrivesse ma, evidentemente, Lei non entra più in questi luoghi vacui oppure non ha più voglia di scrivermi. Oggi, però, ho deciso di scriverLe lo stesso, Messer Papillon, perché ho appena finito un libro così bello che ho bisogno di raccontarlo a qualcuno, e Lei, Messer Papillon, sebbene legga cose molto diverse da quelle che leggo io – lo so che Lei l’avrebbe rimarcato – può certamente capire quale gioia preziosa sia un libro che ci è tanto piaciuto. E’ un romanzo fatto di racconti, o un libro di racconti che si compongono in un romanzo, come un puzzle. Come un grande romanzo dell’ottocento, questo di cui Le voglio raccontare s ’intitola con il nome di un personaggio, Olive Kitteridge, che compare in tutti i racconti, come protagonista oppure, a volte, solo di sfuggita, per una frase o una presenza che è come un battito d’ali nella vita di qualcun altro. (Mi viene voglia di fare un gioco, Messer Papillon… se lei mi scrivesse Le chiederei di fare l’elenco dei romanzi intitolati con un nome che le vengono in mente così su due piedi. Per quanto mi riguarda, ora, mi vengono in mente Anna Karenina, Madame Bovary, il suo amato Dickens con Oliver Twist, David Copperfield, – La piccola Dorrit non vale, non c’è il cognome -. Però se non vale la piccola Dorrit, O Marcovaldo, o Palomar, o Fausto e Anna, o Lolita, o Le età di Lulù, o il silenzio di Laura, o Michael mio, allora non vale neanche Madame Bovary, perché, specularmente, non c’è il nome. E quindi neanche Sostiene Pereira, o Mrs. Dalloway. Va bene, valgono solo i titoli con nome e cognome.)

Nel libro che ho appena finito, tutto accade nel Maine, sull’oceano, in luoghi freddi di neve e di primavere tardive. E’ dura, Olive, e ha un pessimo carattere; a volte è sinceramente antipatica, e come dice qualcuno in un racconto, non si capisce come facciano gli altri a sopportarla. Ma poi… non so spiegarLe… lentamente Olive mi ha conquistata. (Un po’ come Lei, Messer brusco Papillon). Olive è spigolosa, difficile, assolutamente non accomodante, ma è vera come una cipolla: il suo sguardo implacabile penetra uno strato dopo l’altro e arriva fino al cuore, il suo e quello degli altri. Una mia amica mi ha detto che questo libro è una specie di Spoon River dei vivi: è proprio così. Non c’è trama o quasi (un figlio cresce, si sposa, se ne va, si risposa, il marito si ammala e poi muore) se non la trama di una qualsiasi vita di un qualsiasi essere umano occidentale. Però gli esseri umani ci sono, Messer Papillon, come in tutti i libri che amiamo di più. E poi c’è l’oceano, la neve, i tulipani che sbocciano, la luce dell’alba e quella del tramonto (si ricorda? Ho un debole per i libri che parlano del tempo…) E alla fine c’è l’ultimo racconto. S’intitola “Fiume” e non solo perché si svolge in parte lungo un corso d’acqua. E’ un racconto perfetto, Messer Papillon, e davvero il fiume della vita vi scorre in piena, potente come l’immagine che vedo ora dal finestrino: stiamo passando in un tratto aperto, poco prima della sua città, colline in fondo ed enormi tralicci elettrici che corrono lungo la ferrovia e poi si diramano, s’incrociano, spariscono. Mi incanta guardarli, e sempre aspetto questo punto del viaggio perché qui si mostrano nudi, come enormi dinosauri occupando il cielo e lo sguardo. Così è l’ultimo racconto di Elizabeth Strout su Olive Kitteridge: magnifico, netto, struggente fino alle ossa ma senza alcuna sbavatura. Guardo fuori, Messer Papillon, questi fili elettrici che accendono le case, le biblioteche, gli obitori, i teatri, le strade, le balere, gli ospedali, le stazioni, e penso che la vita è così: fili sospesi che possono portare dappertutto a seconda degli incroci. E di nuovo penso a Olive: a settantacinque anni, sdraiata di fianco a un uomo che un tempo non avrebbe mai scelto, con gli occhi chiusi, immagina “due fette di formaggio svizzero premute insieme, i buchi che ciascuno poteva dare a quell’unione, i pezzi che la vita ti levava di dosso.”

Sono confusa, Messer Papillon, su questo treno che mi porta a sud: penso ai miei buchi e guardo i tralicci della luce, anch’essi fatti di buchi che sono belli, perché lasciano vedere il cielo. Sa cosa mi viene in mente, Messer Papillon? Un’opera di Calder, che ho visto recentemente nella sua città in una magnifica mostra dove mi sono emozionata come una ragazzina al primo bacio.

CalderLa scultura s’intitola Bifurcated tower , è una specie di traliccio di filo di ferro che spunta da un muro e si biforca: da una parte rosso, dall’altro nero. Les joeux sont fait. Rosso, nero, buchi. E’ la scultura di Olive, Messer Papillon, ci ho pensato ora. Vorrei tanto incontrarLa e leggerLe questo racconto. Penso che lo fotocopierò e lo terrò in borsa, come ho fatto per un po’ con un altro libro. (le ho tenute due mesi, Messer Papillon, le poesie di Grasso. ) Se per caso ci vedremo, prima o poi, gliene farò dono, come fosse un bulbo di tulipano o una fetta di formaggio svizzero. (Lo so che Lei legge solo libri i cui autori sono morti stecchiti da un bel pezzo, ma per una volta… non sia così rigido, su. Pensi alle sculture di Calder, che sono di ferro e si muovono per un soffio d’aria.)

Sua

Musette B/NMusette

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Una donna che viaggia leggendo e che legge viaggiando.
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