Di segni e contrassegni. Con tre istantanee da Milano, e un po’ di Marai.

Dear -the- Reader,

piove. Dopo tre giorni di luce inauditamente tersa, dopo un vento freddo che ha inconsuetamente reso questa città limpida come una città di mare, di nuovo oggi piove, in un grigio piatto che toglie tridimensionalità agli edifici, alle strade, ai semafori e in un certo senso anche agli esseri umani e al cielo che sembra essere stato inghiottito e risputato come una poltiglia informe e priva di colore.
Ma ieri no. Ieri, freddo, freddissimo – non c’è ancora nemmeno una forsizia fiorita – ma luce generosa, che disegnava ombre e sbalzava chiunque – chiunque – dallo sfondo. Una serie di istantanee, ieri, camminando a vuoto per la città. Due persone molto anziane, un uomo e una donna, che camminano lentamente. Lui ha un bastone, un bastone elegante, e vi si appoggia visibilmente. Lei è minuta, è più sicura di lui nel movimento, ma ha uno sguardo spaurito. Si tengono per mano. Nonostante il bastone, nonostante la lentezza dei passi, è lui che la conduce, e che la sostiene. Anzi, che la tiene. La tiene per mano come una bambina, e lei gliene sembra grata. C’è il sole e un sacco di gente per strada, è sabato, in centro, ma loro sembrano camminare su un’isola, lungo il mare luminoso d’inverno, in silenzio. Sembra che vadano verso un luogo segreto, quel masso, quella insenatura, quel caffè sulla spiaggia che è il loro luogo. Li guardo. Penso ai miei luoghi. Mi volto e continuo a guardarli finché riesco a vederli. Poi riprendo a camminare, e mi sento come una sonnambula o una funambola, non so, forse entrambe le cose. La città mi sembra un grande circo, cammino su un filo e guardo giù, tutto ondeggia, e gli occhi mi si chiudono perché ho un gran sonno, e vorrei solo dormire, ma sono sul filo e non posso. Respiro. Entro in un bar e bevo un caffè. Respiro. Poi riprendo a camminare, e cerco di guardare le vetrine di primavera, e mi dico che sì, il freddo finirà. Ci sono sandali e vestitini leggeri, ma non riesco a non pensare che mi sembra una stonatura, e abbasso ancora di più il cappello, e prendo i guanti nella borsa.
Poi cambio strade. Lascio i negozi e la folla del sabato e mi incammino lungo vie più discrete, senza insegne rutilanti e piedi e voci. Entro in una piccola libreria (esistono ancora, poche, coraggiose, piccole case di accoglienza per coloro che si sentono alieni da questo mondo). E proprio lì, davanti a me un libro che ho appena finito di leggere, di Sandor Marai, “La sorella”. Ne ho appena letti tre, di Marai, quasi in fila, cosa piuttosto strana, per me. Di solito preferisco cambiare autore, dopo una lettura, a seconda del momento, dei libri che ho in casa, perfino della stagione. Ma questa volta è andata diversamente. Ho letto “L’ultimo dono”, il suo quaderno di diari degli ultimi anni, su consiglio di qualcuno che è passato di qui. Una lettura folgorante, che ha toccato corde profondissime, perché è la vita vera, la fine della vita, raccontata senza finzioni. Ma non voglio parlare di questo, ora. Poi ho letto “L’eredità di Eszter”, e poi, appunto, “La sorella”. Due libri diversi, questi due, apparentemente, al fondo dei quali sta però in un certo senso la stessa domanda: chi ama chi? Crediamo di amare qualcuno, e che quel qualcuno ci ami, oppure non ci ami, e passiamo molto tempo a interrogarci e a convincerci. E poi, d’un tratto ci sono parole che ci svelano segreti. Ci sono lettere, nel caso di Eszter, o parole sussurrate versus lettere, nel libro “La sorella” (si intende una monaca, nel titolo) che scardinano tutte le nostre convinzioni più profonde, e davvero ci fanno pensare con sgomento “chi ama chi, in questa vicenda?” E cosa sono le parole, e quali sono le parole che ci salvano, se delle parole possono salvarci? “Certi ritorni sono pericolosissimi” dice (nel La Sorella) il medico al suo paziente, invitandolo a non tornare da una donna che crede di amare, che crede gli abbia in un qualche modo salvato la vita. “Certi ritorni sono pericolosissimi”. Ho aperto in quel punto, nella piccola libreria silenziosa, due o tre solitari come me, il libraio intento al suo computer, un rumore di elicottero dalla strada perché, non lo sapevo, in quel momento di luce piena da qualche parte della città c’erano scontri e vetrine infrante e buio di lacrimogeni. Leggo queste parole, e penso ai due vecchi che ho appena visto, a Marai che si uccide quasi novantenne dopo la morte della moglie, a tutti noi che almeno una volta nella vita ci siamo chiesti se tornare. Non tornerà, il pianista protagonista del libro di Marai, da colei che credeva essere la ragione della sua vita e della sua musica. Non tornerà perchè le parole salvifiche sono venute da altre labbra, da altri mondi, insospettati, lontani. Perché in fondo lo sappiamo, quando non dobbiamo tornare, e anche se qui è un medico, che lo dice, in una metafora che può anche essere un po’ didascalica, le parole degli altri – quando sono lucide – non sono che conferme a ciò che sappiamo da noi, o meglio, forse, di noi. Appoggio il libro sul banco ed esco. Cammino ancora un po’, è presto, la luce è ancora intensa. Passo davanti a un chiosco di fiori, primule e tulipani, perfino fresie. C’è una musica che viene da qualche parte. Mi guardo in giro e attraverso la strada. Un vecchio zingaro con un vecchio organetto su un piccolo carro di legno, tutto colorato. Mi fermo, ascolto, poi cerco una moneta. Gliela metto nel cestino e il vecchio si toglie il cappello e mi dà un bigliettino della fortuna, con tanto di numeri del lotto consigliati. C’è scritto qualcosa come di non allontanarmi da chi veramente mi vuole bene, e che ho troppa convinzione di essere nel giusto. Lo rileggo e poi me lo metto in tasca. Penso che oggi è strano: mi capitano parole di Marai che dicono una cosa e bigliettini della fortuna che dicono il contrario, vedo due vecchi per mano e vago da sola nella città, sento un organetto antico e un elicottero sopra la mia testa. Non so. Sarà che uno vede i segni che vuole vedere, e che io sono così confusa che perfino i segni sono confusi. Mentre penso confusamente alla mia confusione cosmica, un uomo si avvicina allo zingaro, gli dà un soldo e riceve un biglietto. Io lo guardo, per vedere la sua reazione, ma lui se lo mette in tasca senza leggerlo, e tira dritto. Mi viene da ridere. Ecco come si fa. Si mette in tasca e si tira dritto. Sì, mi viene da ridere, e anche un po’ da piangere, perché sono confusa. Sarà che la luce è così nitida oggi, – ieri – e non fa che accentuare per contrasto la foschia che sta dentro la mia testa. Sarà che ho dormito poco, e sto come in una nebulosa non ancora scoperta. Intanto che penso confusamente, sempre lì ferma, l’uomo che ha preso il bigliettino è già arrivato all’angolo della strada, e ha svoltato. Mi muovo, finalmente, il pezzo di carta in mano, la mano nella tasca. Torno verso il chiosco di fiori e mi regalo un po’ di primavera.
Caro -the- Reader, la prego, regali un po’ di primavera a qualcuno, nei prossimi giorni.
Qui ha piovuto tutto il giorno, e i tulipani che ho comprato ieri stanno sul tavolo davanti alla finestra, e insieme alle primule dietro il vetro, che hanno superato l’inverno, – giallo e bianco, bianco e giallo – mi regalano una gran gioia e una gran consolazione. Mi piacerà pensare che anche lì, da qualche parte dove sta lei, qualcuno avrà fiori sul tavolo e la primavera sarà un po’ più vicina.

Sia paziente, tornerò più lieve.
Musette-non-musette

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Una donna che viaggia leggendo e che legge viaggiando.
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6 risposte a Di segni e contrassegni. Con tre istantanee da Milano, e un po’ di Marai.

  1. robertomeister ha detto:

    Anche dalle mie parti piove mia cara Musette e oggi, mentre guardavo fuori, mi sono accorto di un piccolo fiore sopra un tavolo, accanto a me. I petali erano voltati verso la luce della finestra e anche lui sembrava guardare fuori, con aria malinconica. Ho deciso di fargli compagnia e allora ho preso una sedia e mi sono seduto accanto a lui, in silenzio. In qualche modo, forse, gli ho regalato un pò di primavera.
    Un caro saluto

    Roberto

  2. Alla fine della giornata però è spuntato un sole inatteso che ha scolpito dei pesanti nuvoloni di un intenso blu metallico. Ho pensato a lei, MusettenonMusette, che avrebbe certamente trovato il modo di trasfigurare con le sue parole il contrasto tra i tetti imbiancati e questo cielo agitato che vuole resistere all’arrivo della primavera

  3. Anonimo ha detto:

    leggere questi pensieri è veramente un piacere, e un impegno, controcorrente. grazie ancora

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